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IL LIMITE DELLA COMPETENZA

Il Limite /64

 

Il limite della competenza

di Raniero Regni

 

“Se la conoscenza (nel senso moderno di know how, di competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale” H. Arendt

Conoscenze, abilità, competenze. Con queste tre parole in successione si è spesso descritta l’evoluzione dei programmi scolastici negli ultimi decenni. Dalla scuola nozionistica delle semplici conoscenze si è cercata, faticosamente, una strada che portasse dalle nozioni alle abilità, ovvero alle capacità di applicare le nozioni a contesti diversi contribuendo a renderli riconoscibili. Le abilità apparivano troppo ristette per cui si è pensato di svilupparle nella direzione dell’apprendere e dell’insegnare le competenze o per competenze. Come spesso accade nel nostro paese, il cambiamento è stato più formale che sostanziale. Sono cambiati i programmi, diventando necessariamente indicazioni, e gli stessi documenti ministeriali hanno provato a costruire un glossario, con risultati concettuali e linguistici volutamente de-banalizzanti ma alla fine fumosi e confusi.  E poi, come sempre, un conto sono i documenti e un altro sono i comportamenti. Anche i libri di testo sono cambiati, spesso diventando più complessi e quasi illeggibili anche per un adulto acculturato. Anche la lezione molto spesso è ridotta ad un’esplicitazione del libro di testo, con la solita prescrizione finale “studiate da pagina a pagina”.

Il paradosso è che più si vuole essere precisi e “scientifici” nelle definizioni e più si finisce nella complessità e nel dettaglio. Più si danno prescrizioni minuziose sul modo di insegnare, suggerendo verifiche sempre più dettagliate ed ossessive. Il tutto al fine di rendere operativo il sapere. Andrà sicuramente approfondito il discorso, ma mi sembra che dietro la didattica per competenze ci sia comunque la pedagogia per obiettivi e la sua impostazione comportamentista che riemerge costantemente. Con  l’aggravante che più si guarda ai modelli per i bambini e ai ragazzi e alle loro competenze e più li si pensa come macchine, come computer. Programmabili, con strutture modulari che possono essere applicate a più situazioni. Il sospetto è che dietro a questa pratica didattica ma anche dietro la più seria scienza cognitiva e costruttivista si nasconda una vera e propria “meccanizzazione della mente”, come suggerisce l’epistemologo francese J. Pierre Dupuy.  Allora il bambino apparirà in una scolastica come un insieme di competenze, un catalogo di abilità descritte in maniera da essere valutate scolasticamente.

Già in passato mi era capitato di chiedermi: che cosa ne è della competenza senza la capacità di ammirare e senza la passione? Un sociologo tedesco, H. Rosa, si domanda che cosa sia la competenza senza la risonanza. Se io ho tutti gli strumenti linguistici e storici per capire una poesia ma essa non muove niente in me, vuol dire che non ho fatto della scuola un ambiente di risonanza.

Conosco una splendida definizione di competenza formulata nell’ambito della linguistica da N. Chomsky, ”la competenza è la capacità di fare un uso infinito di mezzi finiti”.  Questa è davvero la competenza ma può essere sviluppata solo da un insegnante che mi aiuta a fare da solo o, come scriveva J. Bruner, “l’insegnate diventa una guida alla comprensione, qualcuno che aiuta a capire le cose per proprio conto. Allora l’insegnamento mette in moto l’apprendimento che finisce per coincidere con una bellissima definizione di educazione data dal filosofo britannico Whitehead, secondo il quale “l’educazione consiste nell’acquistare l’arte di utilizzare il sapere”.

Che ne è poi della competenza senza la venerazione? Come ha osservato Junger, al sapere moderno manca la capacità di venerazione, che deriva dall’aprire lo sguardo su orizzonti più ampi, quello di una superiore armonia che altre epoche ed altre civiltà hanno riconosciuto. “Gli esseri e le cose venerano attraverso la loro esistenza. Il concerto degli animali del bosco saluta il sole al suo sorgere; i fiori si allungano verso di lui. La pietra comincia a respirare, si distende. …L’impulso alla venerazione è insito nella materia. E’ dunque impossibile reprimere l’impulso, non la nostra partecipazione ad esso”. La competenza dovrebbe comportare il credere nel sapere e nel suo valore per la vita.

Una stretta relazione è anche quella tra competenza e passione. “L’intelligenza – ha scritto S. Weil – può essere guidata soltanto dal desiderio. E perché ci sia desiderio dev’esserci anche piacere e gioia. L’intelligenza si accresce e dà frutti solo nella gioia. La gioia di imparare è indispensabile alla scuola come lo o è la respirazione per i corridori. Là dove manca, non ci sono studenti ma povere caricature di apprendisti”.

I lettori penseranno giustamente che la competenza è una cosa buona, e lo è. Tutti abbiamo bisogno che ci siano persone competenti in ogni campo. Insegnanti competenti, medici competenti, politici competenti, e così via. Ma le competenze non bastano, ne abbiamo bisogno, ma non bastano, perché vediamo ogni giorno che la sola competenza può portare ad esiti disumani. L’uomo post-umano è definito da una lista di competenze. La competenza è sempre un’entità che possiamo modellizzare. L’opposto dell’uomo-macchina è l’uomo di qualità che è intimamente legato a un tutto che lo completa e lo sostiene. Se sono un ingegnere e perfeziono un razzo per distruggere, la mia competenza non basta, anzi essa appare dannosa senza la coscienza e la responsabilità. Concludo con una figura retorica che mi è cara, il chiasmo: il limite della competenza è la competenza del limite. Oggi è necessario sviluppare la competenza del limite, della sostenibilità in ogni azione umana e così, paradossalmente, far fronte anche al limite della competenza.

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