POESIE MATERIALI: OPERE DI IGINO PANZINO-BONAIRE CONTEMPORANEA, ALGHERO

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La galleria BONAIRE CONTAMPORANE ospita la personale di Igino Panzino curata dal critico e storico dell’arte Mariolina Cosseddu della quale pubblichiamo il testo critico (R.P.)

DI Mariolina Cosseddu

Alcuni anni fa Igino Panzino realizzava un’installazione parietale che riprendendo una frase dello scrittore inglese Somerset Maugham recitava cosi “Vado in giro e tengo gli occhi aperti”. Le sillabe  su carta articolate in caratteri chiari e perentori suonavano come una confessione intima e inderogabile tradotta nella forma di una dichiarazione di poetica. Quella verità ammessa e svelata, che equivaleva di fatto ad un rapporto di presa diretta col mondo, è diventata, in questi due ultimi anni, una prassi operativa costante che ha prodotto i lavori ora in mostra. Un corpus di opere legate da un comune denominatore racchiuso in una scatola magica che trasforma residui occasionali raccolti dalla strada in oggetti altamente significanti. In frammenti di marca concettuale ed estetica, in “Poesie materiali”.

La visione dell’artista nel proprio studio intento al lavoro è immagine consolidata nella storia dell’arte da secoli di pittura, più tardi, dalla fotografia. Immaginarlo invece nello spazio aperto che, come un moderno flâneur  vagabonda mentre si guarda attorno attento a ciò che si può recuperare dalle vie diventate scenari di osservazione, è più difficile da interpretare e catalogare.

Seppure la mente vola subito verso Baudelaire e la sua flânerie  o verso Benjamin con i Passages o, ancora, a Robert Walser (come non evocare la sua celebre Passeggiata) o le camminate filosofiche di Emil Cioran, niente di tutto questo (o, forse, con alle spalle tutto questo) sembra accompagnare la modalità con cui Panzino  esce dallo studio, esplora, raccoglie, progetta e realizza sculture in cartoncino e oggetti imprevedibili.  Celebrati come soggetti preziosi, incartati come gioielli di famiglia e cantati come sonetti amorosi. Fino a creare un proprio personalissimo Canzoniere postmoderno.

Nel cuore delle composizioni plastiche, in strutture tridimensionali di piani slittanti, si racchiude un frammento di reale, una scheggia fortuita, un “objet trouvé” ma rimodulato e trasformato in altro da sé: reperti di strada, residui di un occasionale passaggio, resti inanimati di vite sconosciute, letteralmente brandelli di storie impossibili.

 

Piume, pietre, cocci, ramoscelli, retine, carte strappate diventano, nella struttura compositiva, segni simbolici di un vagabondaggio intellettuale che medita su ciò che appare trascurabile, sull’inutilità apparente delle forme, sugli scarti del quotidiano, in poche parole su ciò che costituisce l’essenza delle cose esaurita la loro funzione originaria. Corpi  di memoria perduta a cui si può fornire un’altra identità. 

Ne discende una mobile e plurale narrazione di incastri e invenzioni, di episodi e pretesti che nella intelaiatura raffinata ed elegante consente una seconda vita all’informe, allo scheletro, agli ossi di seppia di montaliana memoria. Come il poeta che lavora sulle parole e ne ricerca la sostanza più vera spogliandole del superfluo, limando e cesellando la lingua,  così l’artista va al cuore delle cose e ne intuisce il segreto che nascondono, l’esistenza che si portano dietro nella ritrovata nudità della forma. D’altronde Panzino non è certo nuovo a operazioni linguistiche che affrontano gli aspetti della grammatica dell’arte come strumenti  su cui indagare e portare alla luce nello svelamento dei procedimenti operativi. Così i piccoli e banali ritrovamenti subiscono una evidente metamorfosi e si trasformano in talismani insoliti, in dispositivi di accresciuto senso della composizione divenuta una leggera, delicata, lirica visiva. Haiku giapponesi verrebbe da dire. 

Remo Bodei, in celebre testo dal titolo “La vita delle cose”, si sofferma a “decifrare l’inerte” come il risvolto dell’esistenza, l’altra faccia della Storia, itinerari nell’insignificante come un nuovo modo di “aprirsi al mondo”: non ci sono dubbi allora che la modalità con cui Igino Panzino si muove nel contesto che gli è proprio, mentre afferra dettagli di altre vite in transito, mette in scena il suo  trasversale rapporto con il mondo, afferma il suo legame con una mutata socialità, dichiara il desiderio di poter ancora cogliere una realtà inafferrabile. E lo fa elevando ad allegorie concrete quelle minute emergenze su cui esercita il suo sguardo estetico fino a pensarle e realizzarle come reliquie da racchiudere in severi tabernacoli. Risultato dunque di un’azione che non può prescindere da ogni fase che comporta e che sintetizzata suona cosi: l’approccio, il prelievo, la risemantizzazione. Ne derivano nature morte del contemporaneo incasellate in un inventario infinito (pratica non certo sconosciuta a Panzino che negli anni Ottanta aveva dato forma ai suoi bellissimi “inventari semantici”): giocando così tra riletture storiche dei procedimenti delle neoavanguardie e misurandosi costantemente con il proprio presente, Panzino apre orizzonti di riflessione molteplice e ci consegna opere dove la materia si fa tempo.