Juana de Ibarbourou, figura letteraria di spicco dell’Uruguay, ha lasciato un’impronta indelebile nella poesia e nella cultura ispanoamericana. Di origini spagnole, con radici nella Galizia, ha ereditato dal padre un profondo legame con la terra d’origine, elemento che si riflette nella sua opera. È stata celebrata dai suoi contemporanei come la “Juana de América”, titolo attribuitole da importanti figure della critica letteraria e ufficialmente sancito il 10 agosto 1929, quando le venne donato un anello d’oro al Palacio Legislativo di Montevideo per simboleggiare le sue nozze simboliche con l’America.
Nella sua poesia si intrecciano diverse influenze: il modernismo, il simbolismo e l’elegia, unite a una sensibilità personale che ha dato vita a liriche di straordinaria sensualità, gioia e profondo contatto con la natura. Nelle sue prime opere, come Las lenguas de diamante (1918) e El cántaro fresco (1920), emergono questi tratti, ma anche una crescente spiritualità che culmina in raccolte come San Francesco de Asís (1935) e Estampas de la Biblia (1934). In queste, l’autrice esplora temi religiosi, esaltando l’amore, la misericordia e la speranza cristiana come risposte alla sofferenza e alle delusioni della vita quotidiana.
Nel corso della sua carriera, Ibarbourou ha saputo evolversi, avvicinandosi alle avanguardie e al surrealismo, come si nota in La rosa de los vientos (1930), e sperimentando con forme più libere di espressione poetica. La sua abilità di combinare l’introspezione personale con temi universali le ha garantito un posto di rilievo nella letteratura mondiale, con riconoscimenti che l’hanno portata a ricoprire ruoli di prestigio, tra cui la presidenza della Sociedad Uruguaya de Escritores nel 1950 e la candidatura al Premio Nobel per la letteratura nel 1958.
Il fascino e la bellezza che contribuirono ad alimentare la sua fama, fu spesso descritta come opalescente e sfuggente, quasi “fotografica”. E’ rimasto celebre, nel 1938, presso l’Università di Montevideo, partecipò ad un memorabile incontro con due altre giganti della letteratura latinoamericana: Gabriela Mistral e Alfonsina Storni. In quell’occasione, argomenta sul tema Casi en pantuflas (“Quasi in pantofole”), in cui offrì una visione innovativa e anticonformista della creazione poetica.
Nel suo discorso, Ibarbourou sfidò l’idea romantica del poeta come figura elevata e distante, affermando invece che la poesia nasceva dalla quotidianità, nei momenti di solitudine e spontaneità. Dichiarò di scrivere versi “in pantofole”, lontana dai riflettori e dai ruoli imposti, quasi come se fosse una paladina del caso e della semplicità. Questa visione radicale della creazione artistica dimostrava la sua profonda comprensione dell’arte come esperienza intima e personale, lontana dalle convenzioni sociali.
Nonostante il suo approccio modesto e intimista, la sua poesia era spesso considerata provocatoria. Il suo primo libro, Las lenguas de diamante (1918), venne accolto con entusiasmo, ma anche con accuse di oscenità e di eccessiva sensualità. La sua lirica era intrisa di un simbolismo carnale che alcuni critici trovavano scandaloso, ma che, allo stesso tempo, la distingueva come una voce originale e potente. Inizialmente firmava le sue opere con lo pseudonimo esotico di “Jeannette d’Ibar”, combinando un tocco francese a un’aura arabeggiante. Tuttavia, presto adottò il nome che l’avrebbe resa celebre: Juana de Ibarbourou.