JORGE LUIS BORGES: IL POETA DELL’INFINITO

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LETTERATURA E POESIA / ROBERTO PUZZU / 173

Jorge Luis Borges (1899-1986), uno dei più grandi scrittori e poeti del XX secolo, è noto principalmente per i suoi racconti e saggi filosofici, ma la sua poesia è altrettanto essenziale per comprendere la profondità del suo pensiero e la sua visione del mondo. Borges, attraverso la sua poesia, ha esplorato temi universali quali il tempo, l’infinito, l’identità e la memoria, nel riflettere sulla condizione umana con una sensibilità unica ed un uso raffinato del linguaggio. Nato a Buenos Aires, Borges ha trascorso parte della sua gioventù in Europa, un’esperienza che ha influenzato profondamente la sua formazione letteraria, nello studio di autori classici, tanto della tradizione europea quanto di quella latinoamericana. Questo mélange di influenze ha contribuito alla sua capacità di combinare temi universali con una forte identità culturale. Sebbene sia più conosciuto per i suoi racconti, Borges ha scritto poesie per tutta la sua carriera, soprattutto nelle fasi iniziali e finali della sua vita.

I temi affrontati da Borges nella sua poesia riflettono i dilemmi filosofici che hanno pervaso tutta la sua opera. Il tempo, ad esempio, è un concetto ricorrente. Borges lo vede non come una linea retta ma come un cerchio, un’idea che ha esplorato in testi come “Poema Conjetural”, dove Borges riflette sul destino e sull’eternità, nell’utilizzare la figura di suo antenato Francisco Laprida, assassinato nel 1829, per offrire elementi di meditazione sulla mortalità ed il destino.

Un altro tema centrale è quello dell’infinito, esemplificato in poesie come “El Aleph”, che condivide con il famoso racconto omonimo che Borges esplora come qualcosa di irraggiungibile ed indescrivibile, ma anche affascinante e onnipresente. Il suo rapporto con l’infinito non è solo intellettuale, ma anche profondamente emotivo, poiché egli vede l’infinito come un simbolo della fragilità umana di fronte all’immensità dell’universo.

La memoria è un altro tema caro a Borges. In “La cifra”, una delle sue ultime raccolte poetiche, riflette sull’oblio e sulla memoria come aspetti complementari dell’esistenza umana. Lo stile poetico di Borges è elegante e sobrio, con un uso minimale della retorica e delle immagini sensazionali. I suoi versi sono spesso brevi, quasi aforistici, caratterizzati da una precisione linguistica che richiama la sua formazione classica.  La sua padronanza del linguaggio è stata tale che è riuscito a far emergere concetti filosofici complessi attraverso immagini apparentemente semplici.

Un evento che ha segnato profondamente la sua produzione poetica è stata la progressiva perdita della vista, che ha influenzato sia i suoi temi che la sua forma espressiva. Borges, cieco negli ultimi anni della sua vita, ha spesso riflettuto sulla condizione della cecità come metafora della conoscenza limitata e dell’immensità del mondo non visto. In “Elogio dell’ombra”, Borges parla della sua cecità come di un dono ambiguo, che lo ha avvicinato ad una comprensione più profonda dell’esistenza, sottraendogli la visione fisica nell’offrirgli una nuova prospettiva sulla vita e sull’arte.

Borges, pur essendo profondamente legato alla cultura argentina e latinoamericana, è un poeta universale. I suoi versi trattano di questioni che trascendono le barriere culturali e temporali, nell’invitare il lettore a riflettere sulla propria condizione umana. La sua capacità di fondere erudizione, emozione e riflessione filosofica lo rende una figura di riferimento nel canone letterario mondiale.

POESIA CONGETTURALE.

Il dottor Francisco Laprida, assassinato il 22 settembre 1829 dai guerriglieri di Aldao,

pensa prima di morire: Proiettili fischiano nella sera ultima.

C’è vento e c’è cenere nel vento,
si disperde il giorno e la battaglia
deforme, e la vittoria è degli altri.
Vincono i barbari, i gauchos vincono.
Io, che studiai canoni e leggi,
io, Francisco Narciso de Laprida,
la cui voce dichiarò l’indipendenza
di questa provincia crudele, disfatto,
il viso chiazzato di sangue e di sudore,
senza speranza né timore, perduto,
fuggo verso Sud, tra periferie estreme.
Come quel capitano del Purgatorio
che, fuggendo a piedi e insanguinando il piano,
fu accecato e abbattuto dalla morte
dove un fiume oscuro perde il nome,
dunque, dovrò cadere. Oggi è la fine.
La notte laterale dei pantani
mi abita, mi acceca. Ascolto gli zoccoli
della calda morte che mi cerca
con cavalieri, musi, lance.
Io che ho sognato di essere un altro, un uomo
di sentenze, di libri, di verdetti,
frugherò nel fango, sotto il cielo aperto;
eppure, s’insidia nel cuore inesplicabile
una gioia segreta. Infine, vado incontro
al mio destino sudamericano.
A questa sera rovinosa mi porta
un molteplice labirinto di passi,
giorni tramati dal giorno
dell’infanzia. Infine, ho scoperto
la chiave recondita dei miei anni,
la sorte di Francisco de Laprida,
la lettera mancante, la perfetta
forma che Dio conosce dal principio.
Nello specchio di questa notte sfioro
il mio insospettabile viso eterno. Il cerchio
si chiude. Attendo che accada.

Il piede preme l’ombra delle lance
che mi scavano. Il ludibrio della morte,
i cavalieri, le criniere, i cavalli,
incombono su di me… Ecco il primo colpo,
il duro ferro che mi ara il corpo,
il coltello intimo nella gola.

 

ELOGIO DELL’OMBRA

La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno)
può essere per noi il tempo più felice.
È morto l’animale o quasi è morto.
Vivo tra forme luminose e vaghe
che ancora non son tenebra.
Buenos Aires,
che un tempo si lacerava in sobborghi
verso la pianura incessante,
è di nuovo la Recoleta, il Retiro,
le confuse strade dell’Undici
e le precarie case vecchie
che seguitiamo a chiamare il Sud.
Nella mia vita son sempre state troppe le cose;
Democrito di Abder si strappò gli occhi per pensare;
il tempo è stato il mio Democrito.
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e somiglia all’eterno.
Gli amici miei non hanno volto,
le donne son quello che furono in anni lontani,
i cantoni sono gli stessi ed altri,
non hanno lettere i fogli dei libri.
Dovrebbe impaurirmi tutto questo
e invece è una dolcezza, un ritornare.
Delle generazioni di testi che ha la terra
non ne avrò letti che alcuni,
quelli che leggo ancora nel ricordo,
che rileggo e trasformo.
Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest
convergono le vie che han condotto
al mio centro segreto.
Vie che furono già echi e passi,
donne, uomini, agonie e risorgere,
giorni con notti,
sogni e immagini del dormiveglia,
ogni minimo istante dello ieri
e degli ieri del mondo,
la salda spada del danese e la luna del persiano,
gli atti dei morti,
l’amore condiviso, le parole,
ed Emerson, la neve, e quanto ancora.
Posso infine scordare. Giugno al centro,
alla mia chiave, all’algebra,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.

Elogio dell’ombra (Einaudi, 1998), a cura di G. Felicida

IL SOGNO

Se il sonno fosse (c’è chi dice) una
tregua, un puro riposo della mente,
perché, se ti si desta bruscamente,
senti che t’han rubato una fortuna?

Perché è triste levarsi presto? L’ora
ci deruba d’un dono inconcepibile,
intimo al punto da esser traducibile
solo in sopore, che la veglia dora
di sogni, forse pallidi riflessi
interrotti dei tesori dell’ombra,
d’un mondo intemporale, senza nome,
che il giorno deforma nei suoi specchi.

Chi sarai questa notte nell’oscuro
sonno, dall’altra parte del tuo muro?

~SUSANA BOMBAL

Lodata e altera, alta nella sera
va nel casto giardino. È nell’esatta
luce del puro istante irreversibile
che ci dona il giardino e l’immagine
silenziosa. La vedo qui e ora,
ma posso anche vederla nell’antica
Ur dei Caldei, nel grigio di un crepuscolo,
o scendere la lenta scalinata
di un tempio, adesso polvere infinita
del pianeta e che fu superbia e pietra,
o decifrare in altre latitudini
il magico alfabeto delle stelle,
o odorare una rosa in Inghilterra.
Lei è dove c’è musica, nel lieve
azzurro, nell’esametro del greco,
in una spada, nello specchio terso
dell’acqua, è nelle nostre solitudini
che la cercano, nel marmo del tempo,
nella serenità di una terrazza
che affaccia su giardini e su tramonti.

E al di là delle maschere e dei miti,
l’anima, che è sola.