SALVATORE CORADDUZZA AL CENTRO DOLMEN DI SASSARI

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Lo spazio Dolmen, in viale Porto Torres a Sassari, ospita la mostra di Salvatore Coradduzza figlio di quella generazione culturale, prodotta dall’Istituto Statale d’Arte di Sassari, che ha vissuto la diversa impostazione della scuola nata e voluta, di impronta accademica influenzata dagli artisti Filippo Figari e Stanis Dessy e perpetuata dalla capacita di artisti del calibro di Mario Bazzoni; poi quella rivoluzionata da Mauro Manca direttore dell’istituzione scolastica dal 1958 al 1969 e fautore di una svolta nella didattica che si caratterizzerà, da quel momento in poi, con un taglio netto nei confronti dell’insegnamento accademico per una totale apertura alla contemporaneità. 

La mostra è presentata in catalogo dal critico e storico dell’arte Mariolina Cosseddu della quale ospitiamo il testo critico. (R.P.)                                                     

TRAIETTORIE

di Mariolina Cosseddu

Salvatore Coradduzza appartiene a quella schiera di artisti che da una parte hanno scritto, da docenti, un pezzo non secondario della storia dell’ Istituto Statale d’Arte di Sassari ( che significa storia della città e del suo ruolo culturale), dall’altra hanno lavorato in studio per necessità interiore, per bisogno di tradurre, nella manualità operosa, la visione dell’arte spesa nel quotidiano. Partecipe dei movimenti più significativi tra gli anni  60 e 70, Coradduzza ha accolto su di sé quella capacità di spendersi in pratiche differenti, di attraversare territori divergenti come la grafica e la scultura, la pittura e il design senza perdere mai di vista un progetto linguistico unitario e coerente con le sue premesse formaliste. Con alle spalle, oggi, un passato che vale la pena riconsiderare e riposizionare alla luce di nuove esperienze pittoriche, di fatto mai spente e mai esaurite. L’etica del lavoro  è il principio messo in atto nella sua fucina-studio dove manipola, intaglia, compone, assembla. E dipinge. Con mestiere consolidato, con antica maestria, con pazienza artigianale, con il piacere di fare e di risolvere ogni cosa sia possibile fare : dalla preparazione dei telai al trattamento delle tele  fino agli strumenti più idonei al progetto in esecuzione. 

L’opera liquidata sarà frutto di abilità manuale e pensiero operante, organismo compiuto e completo: senza cedimenti alla fatica degli anni Salvatore Coradduzza vive l’avventura artistica come affermazione di esistenza e di energia che, in questa mostra, si materializza nelle scelte pittoriche, in  particolare  nella serie che chiamiamo “Traiettorie” e che compongono un corpus di opere realizzate in un arco di tempo di poco più di dieci anni.

 Se l’astrazione segnica è stato, da subito, il campo più prossimo al suo sentire, negli anni  ne ha sperimentato le sue infinite possibilità rileggendo quei linguaggi d’avanguardia in chiavi diverse ma, in ogni caso, fedeli al bisogno di conciliare severo rigore e libertà espressiva. In realtà con un’attenzione profonda sia al costruttivismo come interazione tra architettura e design sia alle teorie  sulla percezione visiva come rapporto tra opera e destinatario. Ed è proprio in questi lavori in mostra che si assiste alla sua personale declinazione di un fenomeno storico come il “dripping”. Se quel metodo ideato negli anni cinquanta faceva leva sulla casualità del gesto e sull’emozionalità dell’artefice, qui, al contrario, Coradduzza mette a punto una pratica che partendo da momenti ben  definiti sulla superficie della tela (il tocco del pennello intriso di materia) lascia sgocciolare il colore che autonomamente scorre creando linee di attraversamento nette e decise. All’artista spetta il compito di sorvegliare quegli itinerari cromatici e organizzarli su intrecci e griglie regolari e armoniche. In realtà agisce sulla tela con movimenti esterni di sapiente controllo: muovendo e ruotando la struttura dell’opera fa in modo che  quelle colate di colore (che scendono per forza propria) siano pero indirizzate dalle sue mani in movimento fino a creare la composizione desiderata. Ribadisce, allora, la sfida a trovare un punto di convergenza tra casualità e scelte programmatiche, tra la “verità” del colore che si fa strada sulla tela e l’intervento dell’artista in grado di dirigerlo verso l’estetica progettata. Il risultato, sempre variabile e sorprendente, è una tessitura cromatica dinamica e plastica, giocata su contrasti e assonanze, superfici e profondità, realtà e artificio di un’abile regia. Non certo lontana, semmai in dialogo ideale con le opere scultoree dove  insiste, su piani di accoglienza, un equilibrato innesto di diagonali in fermento.  Forme in dialettica sovrapposizione come nidi intrecciati dove luce e ombra definiscono piani slittanti su illusorie dimensioni.

Ne deriva una disciplina combinatoria più simile alle trame di un arazzo contemporaneo che non ai vorticosi ghirigori dell’espressionismo astratto: anche quando concepisce lo spazio con pennellate informali o lo struttura su riquadri cromatici in movimento, non rinuncia alla logica di un nucleo vitale da cui tutto parte e a cui tutto torna. In queste scacchiere, dove il colore sollecita lo sguardo e attrae nel labirinto ottico, l’artista riafferma, se mai ce ne fosse bisogno, la libertà di essere se stesso nella salvaguardia delle proprie radici storiche.