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LE “33 POESIE” DI YORGOS KARTÀKIS

Il concetto di “nékyia”, un rito attraverso il quale, nella pratica cultuale e nella letteratura greca, spettri o anime dei defunti venivano richiamati sulla terra per essere interrogati sul futuro, viene rivisitato da Kartàkis in chiave moderna e personale. Invece di interrogare i morti, il poeta instaura con loro un rapporto d’amore. I vivi possono ferirci, tradirci e farci soffrire, ma i morti, nella visione poetica di Kartàkis, offrono una dimensione di perdono e di intimità unica.

In queste poesie, i morti non sono distanti o inaccessibili. Al contrario, essi dividono il divano con noi, ci danno baci mai dati prima, ci permettono di toccarli, creando un contatto fisico e affettivo che trascende il tempo e lo spazio. Questa connessione non è solo nostalgica, ma anche terapeutica, poiché permette al poeta di ricomporre un passato frammentato e di trasformare il dolore in amore.

Kartàkis raggiunge questo livello di profondità emotiva e autenticità attraverso una parola sobria e diretta. La sua poesia non si perde in orpelli o artifici stilistici, ma si presenta con una semplicità disarmante che amplifica l’impatto delle immagini e delle emozioni evocate. La narrazione poetica di Kartàkis è matura e riflessiva, rivelando una scrittura che è stata affinata dall’esperienza e dalla consapevolezza.

La forza delle “33 Poesie” risiede anche nella capacità del poeta di comunicare attraverso associazioni di idee, creando una rete di significati e immagini che si intrecciano e si arricchiscono reciprocamente. Ogni poesia è un tassello di un mosaico più grande, in cui l’amore per i morti diventa una chiave per comprendere e accettare il proprio passato e, in ultima analisi, per vivere il presente con una nuova consapevolezza.

Yorgos Kartàkis è nato nel 1963 a Chanià, Creta. Ha studiato, vissuto e lavorato per molti anni in Germania. Attualmente vive a Chanià dove unisce il suo notevole lavoro di traduttore a quello di insegnante.

ESMERALDA 

 è venuta mia madre con le spine nelle mani
coperta
indossando una nube nera
e un lamento di secoli che le tremava alle labbra

è venuta mia madre
che io non ho mai toccato
perché mi ha cercato
erano anni che non mi vedeva felice
e l’amore
le leccava
il pomo di adamo

finché non è rimasto che un buco
o una vertebra
che il cane per caso ha dissepolto in giardino

troverò l’acqua
riempirò di sole le finestre
quando riposo sul tuo petto
si rinfresca la stanza

LA SERA

la sera sono venuti i miei morti accecati
da lontano
l’incedere di velluto

hanno aperto la porta
con fatica
faceva freddo

seduti tutta notte sul divano
tranquilli,
muti, quasi inesistenti,
pronti ad alzarsi e andare via

una luce di vetro vagava per la stanza
e una nebbia gli tingeva
di latte gli occhi bianchi

pioveva
dovunque,
solo le loro mani rimanevano fredde
cercando le mie –

mia madre per prima ha detto:
all’altra vita
e s’è chinata e m’ha baciato in sonno.

ORKAN

che c’entra questa spiaggia con i nostri piedi?
c’entra con la tua lingua
che anche se vegetariana mi leccavi il corpo
c’entra con il tuo petto:
due ciottoli ai capezzoli della mia sete.

così ti addormenterò stasera:
senza parlare –
addormenterò il vento
che domani entrerà in casa:
aprite, sono insonne,
stendetevi gonfio le vele
per non riempirvi i capelli di sabbia
e perdere l’estate.

ti ho offerto metà braccio
per farti afferrare i capelli –

ti ricordo con una forchetta in bocca
di fronte allo specchio,
prima d’aprire la porta alle tempeste.

traduzione d Massimiliano Damaggio

 

 

 

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