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“TEMPUS NOVUS” A VILLANOVA MONTELEONE, SASSARI

Dopo la chiusura forzata, dovuta al covid, Su Palattu riprende la propria attività espositiva là dove il virus l’aveva interrotta, con la mostra Tempus Novus a cura di Mariolina Cosseddu, critico e storico dell’arte, della quale volentieri ospitiamo lo scritto illustrativo. R.P.

 

TEMPUS NOVUS

di Mariolina Cosseddu

A Villanova Monteleone si sono riaperte le porte di uno storico edificio, Su Palattu de sa iscolas,  per venti anni luogo deputato alla ricerca fotografica guidato da Salvatore Ligios, poi quasi del tutto inutilizzato. Grazie allo spirito intraprendente di Antonio Murgia, presidente della nuovissima Associazione Uffici d’arte, e al patrocinio della Amministrazione in carica, gli spazi ampi e luminosi di Su Palattu hanno ripreso vita e si avviano verso un nuovo corso, un nuovo viaggio. Un tempo nuovo.

Giocando con la alterazione grammaticale della lingua latina (Tempus novum) e in assonanza con il celebre testo di Walter Benjamin (Angelus novus), la mostra inaugurata il 18  giugno 2022, si propone intenti di continuità e rinnovamento. 

 Senza cercare corrispondenze o affinità con il passato, anzi nella consapevolezza che ciò che è stato è stato, la nuova fase vuole offrire possibilità culturali molteplici e diversificate attraverso uno sguardo allargato e vigile, nel senso dell’offerta di un servizio pubblico, luogo dunque di incontro e dibattito. 

Ad aprire il calendario di SU PALATU una mostra composta da sette artisti, figure storiche nel panorama culturale dell’isola e figure che questi spazi hanno già frequentato negli anni passati,  che conoscono la storia di questo luogo che conosce la loro storia personale. Anzi, proprio l’impegno che ciascuno di loro ha speso nel momento aureo di questo spazio ha guidato la scelta di una presenza che si rinnova e di una riflessione che possa ricucire strappi e falle.  Superare dunque l’improduttività di un tempo spento (dieci anni di chiusura), rimettere in moto energie vitali del nostro contesto culturale ( a cui si aggiunge il tempo disastroso della pandemia), interrogarsi non tanto su ciò che si è perso, quanto sulle possibilità di investire in questo luogo carico di memoria obiettivi piccoli ma costanti per rispondere alle esigenze di un territorio periferico certo ma non meno importante per chi qui vive  e qui opera. 

Ad aprire la mostra la performance musicale di Claudio Maniga, autentico talento che dal 1995 ha fatto, della ricerca sonora, campo di indagine straordinariamente ricco e orientato in direzioni così vaste da includere strumenti della tradizione popolare e sperimentazioni elettroniche. Una tessitura musicale, la sua, singolare quanto emozionante, frutto di studi e indagini in costante sviluppo. 

GIUSY CALIA

Ha voluto interpretare  il genius loci di un edificio che ha smarrito la sua funzione e ora offre se stesso all’immaginario di un’artista che mescola fotografia e sonorità, oggetti e simboli in una installazione parietale illusoria di giorni andati. “La persistenza della memoria” è di fatto un frammento di esistenze perdute, di ambienti disfatti, di arnesi corrosi dal tempo. Un all’allestimento, quello di Giusy Calia, che evoca, nell’impaginazione delle tessere compositive, un piccolo universo domestico di cui rimangono tracce di lirica nostalgia. Un artificio tangibile delle radici dei ricordi, dell’infestante azione con cui irrorano la mente, della struggente bellezza con cui si palesano. Come una porta improvvisamente aperta che rivela i residui di una vita emersa dal fondo della coscienza e di cui permangono ossessive voci ormai indecifrabili. Senza più legame tra il visibile e i brandelli della memoria di cui se ne conserva l’eco lontana.

IGINO PANZINO

E’ al contesto culturale dell’isola che guarda Igino Panzino in queste opere di attenta, lucida e consapevole interpretazione di una identità millenaria ancora cosi attuale e  incombente. La grande struttura a parete, “Impronta”, racchiusa in una intelaiatura di elementi modulari,  ha al centro un nucleo irradiante in cui non si fa fatica a riconoscere la riproduzione grafica del complesso nuragico di Barumini. Una serie di riquadri tridimensionali, in cui campeggiano bande cromatiche, si dirama in un reticolo ortogonale asimetrico e passibile di ulteriori sviluppi. Siamo di fronte alla rappresentazione scenica di una conflittualità mai risolta: l’ordinato e razionale passato  e la confusa congestione del presente. Come a dire che solo dalla lettura dell’antico si può progettare una cultura contemporanea. Lo ribadisce nelle forme intagliate e racchiuse della struttura verticale, “Colonna di un popolo barbaro”, che rivela motivi ornamentali del linguaggio romanico o, ancora, nel “Modello genesi”, che rimanda ai segni simbolici  dei maestri dell’arte sarda. Un omaggio alla loro lezione e una riflessione sul rapporto tra arte e realtà. 

PASTORELLO

Gianni Pastorello ribadisce la funzione della pittura come strumento privilegiato del suo mondo poetico e come linguaggio più aderente alla prepotenza visiva del contemporaneo. L’irruente forza espressiva dei suoi scenari apocalittici propone, in questi ultimi lavori, soluzioni vicine agli effetti cinematografici: un’arte, quella del cinema, che lui stesso definisce la più coinvolgente delle arti. “Paramount” è, nel formato e nella  tensione che attraversa lo spazio, una sorta di sfida alla velocità e alla potenza comunicativa delle immagini filmiche. Ne derivano composizioni labirintiche dove la figurazione convive con dettati di evidente astrazione formale in un universo cromatico complesso e stratificato che chiede al destinatario una percezione altrettanto moltiplicata.  Come in “Tutto il peso del mondo”, in cui dominano, su lontani paesaggi silenti, le ironiche e minacciose strutture  tubolari del suo  forsennato eppure logico immaginario in costante ebollizione . 

GIULIA SALE

“Attese” è un progetto fotografico che rivela, oltre ogni evidenza, la condizione di fissità in cui il mondo è precipitato inaspettatamente. Le immagini di Giulia Sale diventano una rappresentazione   scenica del rapporto tra le cose, del dialogo muto e ambiguo tra gli accadimenti di una realtà   trasformata nell’enigma di un tempo senza vita.  Attraverso l’obbiettivo emerge la temporalità sospesa di paesaggi silenziosi e immobili, bloccati in una cronologia imperfetta. Senza sviluppo e senza storia. L’assenza, il vuoto, la distanza, rendono inconoscibile e oscuro, pur nell’estatica bellezza della forma, ciò che prima ci apparteneva destabilizzando lo sguardo e le coscienze. Lo dice la figura scultorea di Charles Ray, di fatto un fantasma del passato che vive in uno spazio vuoto e straniante: nell’immagine di  Giulia Sale diventa  metafora dello stato attuale dell’arte, colta in un attonito momento di stupore mentre guarda, e noi con lei, la nuova, instabile e fluida metafisica del presente. 

JOSEPHINE SASSU

Lo scatto è quello di un selfie quotidiano, un attimo fermato in una asettica istantanea su cui fioriscono forme e simboli in ambigua relazione,  indizio di un itinerario al di là dell’immagine. Josephine Sassu si racconta così nella serie apparentemente infinita di autoritratti modificati, manipolati, amplificati. Perchè c’è sempre un frammento di se stessa nei segni che crescono attorno alla rappresentazione di un volto bisognoso di attribuiti, cioè di appendici sottratte dal passato e formulate in simboli o accadimenti che danno senso alla propria esistenza guardata allo specchio. Frutto di una fase di meditazione e ripensamenti sul destino d’artista, il lavoro di Josephine Sassu si misura con la storia dell’arte e con la propria storia personale, da cui prolifera un archivio inesauribile di  contesti ironici, giocosi, viscerali, spiazzanti, in ogni caso mai innocui: la dialettica tra le due   componenti sempre assicurata da un gioco difficile da ricostruire. A noi resta da stupirci sulla composizione dove ogni parte si incastra e si sposa in un puzzle di sofferta memoria. 

DANILO SINI

Composta di 20 pezzi + uno, l’installazione a parete di Danilo Sini è una trasversale denuncia della perdita di valori e di azzeramento di senso della cultura contemporanea. L’opera, concepita a metà degli anni novanta, ha trovato la sua concreta strutturazione nel 2019, a ribadire, caso mai ce ne fosse bisogno, la capacità di “durata” dei suoi lavori, persino l’accresciuta forza temporale della sua cruda e spregiudicata poetica. “Blister…uno è rosso” propone in sequenza l’iconografia di un Cristo in croce mutilo che emerge da un fondo di carta compressa e  lavorata a mano. L’altorilievo di fatto è un illusione tridimensionale perché svuotato della materia e della sua capacità simbolica,  confezione senza contenuto, ridotto a puro segno plastico che nasconde il nulla. Se uno è rosso, lo è solo per mettere in evidenza gli altri pezzi, in un rimando visivo drammaticamente fine a se stesso. Così anche nelle tele sciolte dei “Studioimostri”, dissacrante ironia sulla mostruosità del nostro tempo.

GIORGIO URGRGHE

Una colorata mappa del mondo si affaccia dalle pareti della stanza con un invito a seguire le coordinate dettate dalle zone cromatiche. E’ subito chiaro che la geografia eccentrica di Giorgio Urgeghe ha in sé cause e ragioni che varrebbe la pena indagare. La lettura è agevole ma spiazzante, sovvertiva e discutibile, in ogni caso risposta alle mutazioni che tanto più oggi investono gli equilibri geopolitici. “E’ l’ora” dice Urgeghe, è l’ora di ripensare i confini del mondo, le alleanze e gli assetti, gli accordi, le affinità tra i popoli, in un planisfero surreale ma non troppo. Mentre dispone 15 chilogrammi di lavori su tela, realizzati in questi ultimi anni, su una bilancia elettronica e gli dà il titolo di “Peso morto”.  Macerati e sofferti pensieri sul ruolo dell’arte e dell’artista, sull’impossibilità di incidere sui destini e sull’andamento delle cose, in fondo un’amara consapevolezza che da sempre attraversa i suoi lavori seppure mitigata dall’empito giocoso e ironico con cui spesso devia e distrae  lo spettatore.

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