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UN RAGIONEVOLE LIMITE ALLA CRESCITA

Il Limite / 53

di Raniero Regni

Il benessere, oltre un certo livello, non coincide più con il bene-avere. È evidente che la nostra non è una società né felice né sostenibile, come sostiene, tra gli altri, un economista come Stefano Bartolini. Anzi, forse le due cose sono opposte. L’infelicità è il motore della crescita economica illimitata. Più si punta sulla ricchezza, più si inquina e meno si è felici. Persone ansiose che competono per sfuggire al degrado come persone sole, infelici e che distruggono l’ambiente. Ciò che ci rende felici è condividere e condividere non inquina. La nostra ricchezza e la nostra felicità stanno nelle relazioni. Anche per questo dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere su questo pianeta.

Nella prospettiva neoliberista, che ha dominato sin qui il processo di globalizzazione, i beni comuni, come le matrici ambientali, sono stati considerati e usati come beni privati. I beni comuni come l’ambiente e le relazioni umane sono stati degradati dall’azione economica privata e individuale. Tutto diventa privato e senza soldi non si ha accesso a niente. La riduzione del ruolo della politica a scapito di un’economia di rapina in cui l’individualismo egoistico domina, è andata a svantaggio dell’azione collettiva. Questo modello è entrato in crisi, credo in maniera irreversibile, ma non è stato ancora cambiato, anzi si è puntato su quello che sempre Bartolini chiama la “crescita difensiva”. Ovvero la convinzione che ci si potrà sottrarre al degrado inevitabile dell’ambiente e delle relazioni attraverso un accumulo privato sempre più forte di denaro. La crescita difensiva innesca così un circolo vizioso, “la crescita genera distruzioni sociali e ambientali che a loro volta generano crescita”. 

Due secoli fa, con la rivoluzione industriale, abbiamo avuto la grande accelerazione dell’economia e della società. Se, ad esempio, all’inizio della industrializzazione l’orario di lavoro era molto alto, esso è andato progressivamente diminuendo fino agli anni ’80 del secolo scorso, quando ha ripreso a risalire. Inizialmente il tempo libero era cresciuto insieme al benessere, oggi è fortemente diminuito e questo a tutto scapito della felicità. Sono infelici coloro che lavorano troppo, sono infelici quelli che non lavorano. 

L’approccio neoliberista, che è stato alla base, dello sviluppo, vuole il massimo profitto con il minimo dei costi. Come riteneva M. Friedman, “la responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti”. Ma, come osserva D. Goleman, questo porta ad una conseguenza inaccettabile: “la necessità etica di non fare cambiamenti – non importa quanto possano essere virtuosi – se danneggiano il profitto”.  Non ci si può aspettare quindi una svolta dall’economia che ha creato il danno ambientale.  La soluzione va cercata nella politica, in una politica che si riappropri della competenza e della consapevolezza, una politica realmente democratica che si sottragga al tecno-ottimismo. 

Anche da questi brevi accenni economici appare evidente che, “se vogliamo la sostenibilità dobbiamo ridurre le nostre ambizioni di crescita”. Ridurre il lavoro e aumentare le relazioni e il rispetto dell’ambiente. Queste idee appaiono ragionevoli mentre appaiono irragionevoli nella prospettiva della crescita illimitata. Appaiono ragionevoli per la crescente cultura e sensibilità ambientalista ma appaiono impraticabili per la politica che ne dovrebbe seguire. Perché? Rimane così un enigma da risolvere che proponiamo come domanda finale. Perché, mentre cresce la coscienza dei problemi ambientali, non trova una sponda politica? In altre parole, perché l’ecologismo, almeno nel nostro paese, non è una forza politica? 

La risposta, forse, nel prossimo articolo.

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