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LA MENTE SUONA I PENSIERI ( prima parte )

LA MENTE SUONA I PENSIERI ( prima parte )

Con vera soddisfazione comunico che  da questa settimana  la nostra rivista si arricchisce del contributo di Lorena Menditto che  nella sezione Salute&Benessere curerà la rubrica di Psicologia “La mèta”, illuminandoci simpaticamente e “con brio sul “complesso intreccio di dialoghi interiori della “sua” Psicoterapia. Benvenuta alla gentilissima Lorena anche a nome dell’intero  gruppo redazionale.

Pierluigi Palmieri –  Direttore di Centralmente Quotidiano e Rivista

di Lorena Menditto

Il nostro DNA si allunga per adattarsi alla longevità; non eravamo programmati per vivere così a lungo, eppure la ricerca e il progresso hanno apportato modifiche epigenetiche: ci stiamo sviluppando in termini evolutivi, stiamo accrescendo le tappe. La sopravvivenza stimata di vita corre sul filo dell’esperienza del vissuto ideale di divenire immortali, ma nella situazione in cui questo si prospetta come evenienza di probabilità, ecco che compaiono le paure, seconde solo ai traumi da stress, di sopravvivere alla vita.

Il concetto intrinsecamente collegato alla paura – di morte – di chi si occupa di curare i malati di cancro, aggancia il fantasmagorico rituale dell’incanto del vivere e del non vivere, del ricordo, del passato che ritorna sotto altre forme, sotto vissuti più o meno presenti, sotto vissuti più o meno arcaici, e nel fare questo viaggio, si consuma l’attimo del punto di fusione, quel momento irripetibile in cui abbiamo smesso di provare dolore per un evento e cominciamo ad averne per un altro. Smettiamo di vedere un uomo e ne vediamo un altro.

Che poi, a ben vedere, si dice spesso come sia più facile morire che nascere, e – visto il risultato della vita – deduco che, dal punto di vista meramente conoscitivo, siffatta teorizzazione si può facilmente far convalidare dai vivi, mentre è assai più complicato interpellare chi non lo è più, e la moderna ostetricia e la ginecologia da parto sono entrambe a sconfessare il postulato di partenza: si nasce ormai in ogni modo. 

La prima grande differenza tra nascere e morire sta proprio nella consapevolezza. Nasciamo inconsapevoli, mentre, ad eccezion fatta per alcune morti, ce ne andiamo consapevoli di farlo.

Qualcosa mi dice però che questa lettura potrebbe portare il lettore a pensare che la dissertazione scientifica, abbia preso una pausa di respiro lasciando il posto agli aspetti più discorsivi, e l’impressione potrebbe sembrare vera. Ma non lo è. Per addentrarci nella paura senza commettere errori di metodo occorre comprendere cosa siamo disposti a lasciare andare via e su cosa invece basare gli argomenti vitali. Siamo in un profondo viaggio sommerso, dove le parole sono preferite ai numeri, ma, per giungere a questo risultato, di numeri ne sono serviti molti: ecco cosa intendo io per scienza.  

Come psiconcologa ho scandagliato le storie dei protagonisti e, laddove possibile, ho partecipato alle loro parti di vita raccontata.  Quando compilavo le anamnesi familiari mi chiedevo, sovente, se stessi dimenticando qualcosa, se stavo omettendo dei particolari, se stavo fantasticando, se stavo inventando delle parti e nel farlo mi addentravo sempre di più nelle loro storie.

C’è Mario (nomi di fantasia) che assume psicofarmaci per dormire, o Adele che si vergogna nel dirlo, ma anche Lei da giovane medico specializzando, non riesce più a dormire e per farlo, si droga. C’è Antonio che fa l’infermiere e fatica ad immedesimarsi, che ha paura degli aghi e sogna il fuoco di notte. C’è Marta l’anestesista che piange quando accompagna una donna in sala operatoria.

Poi ci sono io che non piango. Io che fino a un giorno prima avevo paura di ogni cosa, dal vivente all’inanimato, dal buio al freddo invernale, dagli spazi chiusi alle piazze, dal conscio all’inconscio, dal presente al futuro, insomma ero felicemente dicotomica!

Ora sono ferma e risoluta, riempio cartelle, protetta dal mio camice stirato e ciononostante sempre imperfetto, ma sicuro baluardo per le mille domande intrusive; sto lì con la mia immagine di competenza e non provo alcun dolore espansivo e questo me ne procura moltissimo di altro tipo.

Un dolore camuffato, sottile come il piacere quando sta per virare verso la sofferenza, quella parte agìta di me in cui smetto di essere esecutiva e mi rilasso: allora esce il dolore magmatico, quello che ti sveglia mentre dormi e ti fa pensare ad un terremoto, mentre sei tu che tremi, e con te gli artefatti della tua stanza.  Sono in grado di muovere gli oggetti con il dolore?

Dopo la prima non rassicurante sensazione di pericolo imminente, mi aggancio alla parte razionale e ben comprendo che gli oggetti artefatti della stanza sono, fortunatamente, fermi e sono lì immobili a rassicurarmi sulle nostre reciproche immobilità. Non mi sto muovendo fisicamente e, di fatto, neppure gli oggetti: è la mia mente che si muove. Si muove e sposta energia vitale; mi sono consumata un po’ anche io in quel reparto e nel farlo ho spostato evoluzionisticamente, anche la mia età biologica, oltre che quella mentale. Un pezzetto del mio DNA ora si va allungando, sa che posso vedere più in là di un seno ricoperto da un tatuaggio o ricostruito sul taglio doloroso; sul quel tipo di dolore il mio involucro proto-narrativo, per dirla come la direbbe uno dei miei Maestri Michel Imberty, si sta accordando con la mia anima e nel farlo, come su uno spartito musicale, le note sono i pensieri e la musica è la mia mente: la mente suona i pensieri.

Come se ne esce, penserà il lettore, da questo saggio improbabile, forse solo con l’intelletto o con la consapevolezza che il dolore può costruire percorsi che non necessariamente portano alla paura, mentre invece – e lo considero un assioma – la paura porta sempre ad una qualche forma modificata di dolore, che a sua volta imprime nel codice genetico l’immagine non sempre salvifica, della resilienza e della sopportazione. L’intramontabile certezza che con calma mi accingo a descrivere in questa nascente rubrica illuminata da grandi Maestri, è quella di una giovane donna che voleva fare un bel lavoro sull’empatia, eppure si è trovata come Cristoforo Colombo, ad arrivare altrove, sui lidi dove si custodiscono i segreti dei traumi.

Fin dal primo anno dell’Università, fin da ragazza, fin dalle frequentazioni toscane dei casi clinici di freudiana memoria, fin dai primi passi ho capito che il sentire non ha che fare con il percepire e che un sentimento non è solo un parente stretto di un’emozione, bensì trattasi di correlati con venature di somiglianza, come può far cadere in inganno una goccia di pioggia accanto ad una lacrima. Io non lo sapevo, ma le lacrime, definite qua e là come echi di un qualche triste sorriso, sono ricche di proteine, di sali minerali e di altri elementi assai diversi chimicamente e filosoficamente dalla pioggia, eppure, viste da lontano, perfettamente identiche ad una goccia di pioggia.  Identiche, sovrapponibili, eppure diverse.  

Anche qui il lettore si starà chiedendo cosa effettivamente c’entri questo discorso con la paura; siamo finiti in una dissertazione sulle certezze e sulle similitudini? In fondo in parte si, poiché è la dimensione psichica interpersonale, considerata come il “sentire”, che sta guidando questo scritto contaminato dalle tante passioni; uno scritto che è in lotta ormai senza soluzione, con la mia dimensione intra-personale, che mi mette in difficoltà con tutto ciò che è il “somigliare”, con il “non essere”. Una dimensione personale sofferente. Credo che questo complesso intreccio di dialoghi interiori ci condurrà inevitabilmente, verso un discorso difficile: un discorso difficile che da oggi porteremo avanti “con brio” su La Rivista della Domenica.

(Continua nel n. 43)

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