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IL LIMITE NEL PENSIERO DI SERGE LATOUCHE

di Raniero Regni

Il benessere, oltre un certo livello, non coincide più con il bene-avere

Chi è Serge Latouche? È uno degli intellettuali più importanti di oggi. Economista di formazione, ha sviluppato un’originale interpretazione della globalizzazione come occidentalizzazione del mondo, della megamacchina tecnologica, delle origini e delle conseguenze distruttive del pensiero economico. Studioso e critico del mondo contemporaneo, è diventato famoso per aver teorizzato la cosiddetta “decrescita”. Una teoria ricca e complessa, che poi è diventata anche l’inziale bandiera ideale del Movimento Cinque Stelle, per finire poi come slogan banalizzato, sia dai suoi sostenitori che dai loro critici. Ma non è della decrescita felice, che non è affatto il contrario della crescita illimitata, ma è la società liberata dalla religione della crescita, che voglio parlare, né dell’idea di sobrietà che la sorregge, assieme al necessario disincanto dell’immaginario occidentale basato sullo sviluppo senza confini in ogni settore della vita.

Latouche è uno studioso e pensatore critico del mondo di oggi. Sì, perché pensare significa criticare e criticare vuol dire distinguere il bene dal male, il giusto e l’ingiusto, il bello dal brutto dei nostri tempi. In testi recenti, dopo essere andato in pensione come docente dell’Università di Parigi, scrive come qualifica professionale, oltre che professore emerito di Economia, “obiettore di crescita”. Sì, avete letto bene, obiettore nei confronti di un modo di pensare e di vivere che da diversi decenni se non da un paio di secoli si basa sulla crescita illimitata, sul “di tutto e di più”, indifferentemente da quello che produciamo, consumiamo, facciamo. Come il disastro urbano della società della crescita che, pur cementificando ogni centimetro quadrato di terreno, non riesce però più a costruire “il fare citta”, l’abitare assieme delle persone, il convivere con la natura, che si ritrae assediata. Una città che non educa più cittadini sovrani attivi, ma semplici utenti e consumatori passivi.

Latouche è uno dei rari pensatori, raro per intelligenza e onestà intellettuale, che ha capito fino in fondo la crisi di civiltà che stiamo attraversando. Sì, perché è di questo che si tratta. Siamo ad un capolinea della storia, il modo di pensare novecentesco non è più capace di intercettare quello che ci sta accadendo. Alla radice del pensiero dell’economista francese c’è la riscoperta del concetto di limite. E mi riferisco soprattutto ad un suo testo del 2012 intitolato proprio Limite. La condizione umana è inscritta dentro dei limiti. Oggi questi limiti, che la modernità ha forzato in ogni direzione, stanno riproponendosi in ogni settore. “Siamo entrati nell’era dei limiti, non c’è dubbio”. Limiti fisici e politici vengono annientati. L’imperialismo della crescita economica abolisce anche le frontiere tra morale, politica ed economia. Ieri si controllavano a vicenda, imponendosi dei limiti, oggi non più.

L’Occidente istituisce una cultura dell’illimitatezza”. È necessario che si ponga un limite al desiderio di potere illimitato: limitare l’illimitatezza. Uno dei sinonimi più aggiornati della parola limite è autolimitazione. “Il limite che deve essere fissato e accettato liberamente”. E, allora, chi imporrà questa autolimitazione? La risposta di Latouche è politica: il demos. Ovvero la comunità degli esseri umani liberi che si pongono dei limiti, per scongiurare il crollo collettivo e, paradossalmente, ritrovando in questo gesto nobile di autolimitazione, una comunità e una fraternità. Limitarci per permettere la convivenza e la sopravvivenza, anche alle future generazioni. Autolimitarci per riscoprire le relazioni umane (sia detto per inciso è questa nostra incapacità che sta dietro al dibattito tra no-vacs e governi). Autolimitarci per permettere l’uso dei beni comuni come l’aria, l’acqua, il paesaggio. Dobbiamo ripensare radicalmente le questioni economiche, politiche, morali sullo sfondo della crisi della biosfera. Perché “non ci sono dubbi che viviamo nell’età dei limiti”, anche per un’altra ragione.

Il benessere, oltre un certo livello, non coincide più con il bene-avere. È evidente che la nostra non è una società né felice né sostenibile, come sostiene un altro economista come Stefano Bartolini. Anzi, forse le due cose sono opposte. L’infelicità è il motore della crescita economica illimitata. Più si punta sulla ricchezza, più si inquina e meno si è felici. Persone ansiose che competono per sfuggire al degrado come persone sole, infelici e che distruggono l’ambiente. Ciò che ci rende felici è condividere e condividere non inquina. La nostra ricchezza e la nostra felicità sta nelle relazioni. Anche per questo dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere su questo pianeta. Un altro tema collegato, che svilupperemo un’altra volta. Concludo con un’osservazione fatta dall’ex presidente degli Usa Obama, ascoltata in una recente intervista durante una trasmissione televisiva italiana. Egli si è domandato che cosa avrebbe ricordato di più bello di fronte alla fine, in punto di morte. Non sarebbero stati sicuramente i momenti di gloria politica, né i grandi incontri di vertice in cui lui era forse l’uomo più potente della Terra. No, i momenti che lui avrebbe ricordato come più cari e preziosi, nell’ultimo bagliore di luce, sarebbero stati i momenti felici passati con le sue figlie. Perché ciò che ci rende felici non è possedere ma è condividere.

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