HomeLa RivistaPolitica, economia e finanzaIL CAPITALISMO MADE IN CHINA E’ ALLA FINE ?

IL CAPITALISMO MADE IN CHINA E’ ALLA FINE ?

 

Arricchirsi è glorioso ripeteva  nel 1978 Deng Xiaoping. D’accordo… ma non troppo  conferma oggi XI Jinping, parafrasando la celebre canzone francese  “Je t’aime, moi non plus”. Partendo dalla affermazione del 1978 con la quale la Cina ha sancito uno sconvolgente capovolgimento ideologico oggi possiamo dire che le relazioni che  si sono manifestate in questo lasso di tempo tra Pechino e il capitalismo sono state piuttosto movimentate, trovando solo  in questi ultimi anni un certo equilibrio tra la crescita  tumultuosa del PIL ed i processi interni attraverso i quali trasferire i benefici ad una classe media in continua espansione. Il successo è stato evidente e la crescita, in sostanza,  trainata dalle  industrie messe al servizio del mondo intero, ha permesso ad oltre 400 milioni di cittadini cinesi di diventare borghesi con redditi pro-capite annui ben oltre la media. L’effetto distorsivo e, forse, inatteso è stato  quello di aver prodotto anche 5 milioni di super ricchi che neppure l’Italia, la Francia e la Germania messi insieme hanno. Non si  spiega altrimenti il motivo per i quale il potere costituito si sia esposto così platealmente per attaccare l’industria di punta, quella tanto per intenderci che rivaleggia con le mega società americane, causando un danno di immagine all’unità nazionale, anche se di facciata, e agli investitori di tutto il mondo che hanno visto precipitare le quotazioni borsistiche di altre il 20%.            

Per afferrare il senso di questa azione occorre andare a ritroso nel tempo e capire come il capitalismo cinese pur essendo stato un disegno geniale si sia via via avvitato su dogmi che in un mercato libero non hanno cittadinanza. In un primo tempo  la Cina ha accettato di divenire l’industria del mondo mettendo a disposizione degli industriali occidentali la sua mano d’opera abbondante e a basso costo quando questa, specie in Europa, rappresentava la voce più pesante del costo di produzione.

Nei testi di economia classica si parlerebbe di dumping, un sistema che però non ha portato benefici macroeconomici perché la Cina non ha fatto altro che scambiare le ore di lavoro dei suoi lavoratori con carta moneta e prestiti dei paesi occidentali il cui valore intrinseco è nullo. In altri termini : la contropartita del lavoro fornito da questi milioni di salariati sotto pagati non è stata di natura pecuniaria, ma di natura eminentemente tecnica in quanto  le imprese occidentali sono state obbligate a fornire il supporto di conoscenze tecnologiche  senza il quale non ci sarebbero mai stati beni prodotti come Made in China . Il seguito lo conosciamo bene : in qualche decennio non solo  ha colmato il suo ritardo ma in certi comparti è allo stesso livello dei competitors europei ed americani. Nel settore delle macchine elettriche, per esempio, è allo stesso livello di Tesla, in quello dei treni veloci l’equivalente cinese è rapido quanto il nostro Freccia Rossa rispetto al quale è più silenzioso e meno caro. In altri campi ci ha addirittura sorpassati come nell’informatica quantistica, nei satelliti militari e nelle centrali nucleari che l’Europa in questi ultimi tempi sta prendendo il vezzo di snobbare. Questi successi in serie rendono ancora più incomprensibile gli attacchi che lo Stato ha sferrato contro questo sistema capitalistico dirigista che fino ad oggi ha dimostrato di funzionare molto bene. Perché dunque le vecchie ricette non sono più accettabili per Pechino? Arricchirsi può essere glorioso  ma mai al punto  di raggiungere un livello tale da mettere in ombra la pianificazione centrale. Ecco perché in Cina è impensabile vedere emergere dei Jeff Bezos o degli Elon Musk che con fondi propri realizzano programmi storicamente riservati alle nazioni; e quando ciò accade, come nel 2020, Jack Ma, fondatore di Alibaba e proprietario del giornale South China Morning Post, è sparito improvvisamente dall’oggi al domani. Ricomparso dopo tre mesi ha ripreso la sua presenza mediatica come se nulla fosse successo, pur avendo dovuto assistere, impotente,  all’operazione  con cui Pechino ha annullato l’IPO (1)  di Ant Group (fintech specializzata in pagamenti on  line) e, guarda caso, vecchia proprietaria della sua Alibaba . Stessa storia  quella accaduta a Didi Chuxing, l’Uber cinese, quando ha voluto quotare la sua società alla Borsa di New York, ritrovandosi improvvisamente nella impossibilità di collegare i suoi taxi alla rete nazionale. Altri esempi non aggiungerebbero alcunché di sostanziale al discorso perché l’intendimento del l’establishment era quello di dare un doppio segnale simbolico della sua forza decisionale :

  1. a livello interno, il Governo ha dimostrato di non avere scrupoli a rimettere in riga gli imprenditori che cantano fuori dal coro potendo sabotare le loro attività in ogni momento, specie quando queste dovessero assumere dimensioni tali il cui peso sociale diventerebbe troppo importante.

  2. A livello internazionale, “Il Potere” ha dimostrato che non esiterà a far perdere denaro agli investitori stranieri che hanno finanziato le imprese cinesi anche nel caso in cui ci dovessero essere ritorsioni internazionali forti da mettere in pericolo la sopravvivenza di queste ultime.

Il messaggio finale mi sembra chiaro: imprenditori e risparmiatori debbono sempre  sentirsi piccoli di fronte al potere centrale. La loro ascesa, i loro guadagni ed anche la loro esistenza sono sottomessi alla benevolenza delle autorità.

Un segnale che va tenuto presente da tutti coloro che intendono investire in Cina.

(1) Un’offerta pubblica iniziale o IPO (dall’inglese initial public offering) è un’offerta al pubblico dei titoli di una società che intende quotarsi per la prima volta su un mercato regolamentato. Le offerte pubbliche iniziali sono promosse generalmente da un’impresa il cui capitale è posseduto da uno o più imprenditori, o da un ristretto gruppo di azionisti (ad esempio investitori istituzionali o venture capitalist), che decide di aprirsi ad un pubblico di investitori più ampio contestualmente alla quotazione in Borsa. 
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