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ECODISTRETTO E BIOREGIONE: COME SOTTRARSI ALLA SOCIETA’ DEL RISCHIO

Si dice che l’umanità e il pianeta che essa abita, assieme a tutte le altre specie viventi che popolano la biosfera, stia correndo dei rischi planetari annunciati dal cambiamento climatico. Ne aveva parlato per primo un sociologo tedesco, U. Beck pubblicando nel 1986 un libro dal titolo La società del rischio. Egli fondava la sua analisi sulla preliminare distinzione tra pericolo e rischio. Il primo è qualcosa di naturale, come un terremoto, a cui gli umani sono sempre stati esposti e fa parte del cieco destino a cui è soggetta la natura. Il rischio invece non è che la retroazione dell’azione  umana sul pianeta, la quale torna indietro come minaccia. Questo secondo genere di minacce sono in realtà autominacce, questo a prova della potenza e della smisurata presunzione dell’azione umana. I cambiamenti climatici sono l’inveramento preciso di questa teoria. Gli eventi estremi e catastrofici sono diversi dalla peste di Atene o dall’esplosione del Vesuvio. La pandemia e il riscaldamento globale sono reazioni dell’ecosistema all’azione artificiale dell’essere umano. Siamo noi la causa del nostro male. E, invece di seguire l’adagio popolare che suggerisce di piangere se stessi, dovremmo correre ai ripari con azioni di mitigazione e di adattamento. 

Come si è espressa una climatolaga, “non dovremmo più parlare di cambiamento climatico ma di emergenza climatica “(P. Mercogliano). L’estate più calda di sempre, i picchi sopra i quaranta gradi. Questa ondata di caldo è diversa da tutte le altre che sempre hanno attirato l’attenzione dei media che, nella pausa balneare, hanno meno notizie su cui lavorare. Questo caldo ha qualcosa, come è stato scritto, di definitivo, ha un sapore diverso, sa di apocalisse. Che cosa dobbiamo fare?

Oltre alle azioni di sistema, che si cominciano ad attuare con una lentezza inconcepibile a livello planetario, ogni comunità dovrebbe prendere coscienza e agire di conseguenza. Ridurre se non azzerare il consumo di suolo, analizzare e rigenerare lo stato delle matrici ambientali, puntare ad una forma di autosufficienza energetica, ridurre drasticamente l’inquinamento e la produzione di CO2. Ma non alla maniera in cui la intendono alcune industrie come i cementifici che vogliono far passare l’integrazione del petcoke, di fatto uno scarto molto tossico del petrolio, con il CSS combustibile, di fatto un derivato dalla frazione secca dei rifiuti casalinghi e industriali, per operazione ecologica. In realtà si tratta dell’aggiramento furbesco di una buona intenzione delle direttive europee che voleva la tassazione delle emissioni. E questo non per creare un lucroso mercato delle quote di inquinamento ma per far capire che le esternalità, ovvero i danni ambientali, nei confronti dei quali il mercato è cieco in quanto non hanno un costo (esempio eclatante di come il mercato autoregolato fallisca), devono invece avere un prezzo che li renda visibili e contabilizzabili. Il capitalismo verde non funziona e questa non è l’economia verde ma una sua caricatura. Ridurre il CO2 è l’obiettivo minimo e immediato, che arriva dopo aver ridotto l’inquinamento, non esponendo la popolazione a nuovi e insidiosissimi inquinanti derivati dal bruciare rifiuti. Per non parlare poi del fatto che l’Unione Europea non promuove il recupero di energia dai rifiuti ma solo il recupero di materia. Traduco: i rifiuti vanno riciclati e non bruciati (vedi Fit for 55, ovvero il pacchetto di norme per ridurre le emissioni di CO2 del 55 % entro il 2030, rispetto al 1990).

La strada è quella indicata dalla Società Internazionale dei Medici per l’Ambiente (ISDE) di creare gli Eco-Distretti, in ogni comune o in più comuni aggregati, ovvero un modello esplicito per la tutela delle matrici ambientali (aria, acqua, suolo) e la prevenzione primaria dei fattori di rischio collettivi. Gli scopi sono quelli di ridurre i rischi ed i danni per la salute e l’ambiente, decostruire la soglia di tolleranza all’inquinamento ambientale, attivare processi di riacquisizione di competenze del livello territoriale su ambiente e salute, innovare le pratiche gestionali e partecipative introducendo elementi di gestione comune, sperimentare il superamento degli approcci lineari e mostrare la funzionalità invece di quelli circolari. Le finalità sono quelle di separare il ciclo biologico da quello tecnico; elevare la consapevolezza dei cittadini sui problemi ambientali e socio-sanitari; armonizzare la gestione del territorio con la vocazione turistico-agricola-ambientale, stimolando aziende e imprese ad introdurre innovazioni eco-sostenibili per creare nuove opportunità di lavoro e di mercato, contribuendo così a ridurre gli impatti eco-sistemici sul territorio. 

Molto simile e complementare, anche se con una storia diversa, è l’idea di Bioregione promossa da molti anni da un movimento intitolato proprio bioregionalismo. La bioregione è un territorio formato di terre e acque il cui perimetro non è definito da confini amministrativi, bensì dalla sovrapposizione tra il perimetro delle comunità che li popolano e quello dell’ambiente che le circonda. È l’area entro cui quella comunità trova le risorse per soddisfare la maggior parte dei bisogni primari, ovvero cibo, riparo, energia, ciclo dell’acqua e dei rifiuti, natura e cultura. A cui si possono aggiungere anche i bisogni di lavoro, salute, e identità. 

Si tratta di concetti, studi ed esperienze già rodate che comportano un nuovo modo di pensare e vivere il rapporto uomo-ambiente che, qualora fossero state applicate, avrebbero già prodotto i loro effetti benefici. Sono concetti che vanno oltre la dimensione amministrativa di comuni e regioni ma che configurano le comunità umane come integrate in un territorio non solo amministrativo ma naturale, fatto di bacini idrografici e di clima. Concetti neanche tanto nuovi ma comunque in gran parte inapplicati e che oggi appaiono invece indispensabili per poter guidare ogni scelta individuale e collettiva, locale e nazionale. 

Ritornando alla “società del rischio”, che oramai è una certezza, questo concetto aveva dei risvolti anche positivi.  Come osservava Beck, il rischio è l’anticipazione del disastro nel presente, per evitare che quel disastro si verifichi o che accada il peggio. La capacità di anticipare un rischio consente infatti di non trasformare le emergenze in panico sociale e le paure in catastrofi, ovvero di non superare il limite del non ritorno. Questa esperienza ci lega agli altri, al di là delle frontiere, delle religioni, delle culture. Ci lega a tutti gli esseri viventi non umani. In un modo o nell’altro, il rischio produce una certa comunità di destino e, forse, anche uno spazio pubblico mondiale fatto di condivisione e responsabilità. 

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