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Collaborare o competere? Insieme.

Tempo di Olimpiadi, tempo di competizioni ad altissimo livello, tempo di record. Festa dello sport si dice, anche se lo sport non è solo questo. Un gioco competitivo governato da regole dove la migliore gioventù si sfida. Citius, altius, fortius, più veloce, più in alto, più forte, è il motto inventato da Henri Didon e reso famoso dal creatore delle Olimpiadi moderne Pierre De Coubertin. In questa edizione giapponese è stato inserito per la prima volta un quarto ideale “communiter”, ovvero insieme. Dal latino communis, cum – munis, ovvero “dare reciprocamente un dono”. Il dono reciproco della presenza, della collaborazione, della sfida, del rispetto dell’avversario, della competizione leale e, in fondo, fraterna.

Certo lo sport moderno è cosa diversa dal gioco, ovvero un’attività antiutilitaristica che trova il fine solo in se stessa, in questa strana “supremazia dell’inutile” che caratterizza la nostra specie. Così come è cosa diversa dal rito, da cui pure lo sport trae origine e di cui porta ancora le tracce profonde, con la potenza mitica ed epica di evocazione di qualcosa di sacro a cui sacrificare tutto, come accade nel dolore autoinflitto degli allenamenti. Dal rito al record, per richiamare il titolo di uno studio fondamentale su questo tema di A. Guttman, la differenza è enorme e segna la distanza non solo tra le Olimpiadi antiche e quelle moderne, ma tra l’umanità delle origini e l’umanità odierna, tra l’apparente irrazionalità del rito sacro e la razionalizzazione delle gare moderne, dove si gareggia non solo tra avversari ma soprattutto contro gli orologi, macchine che fino a qualche secolo fa non esistevano nemmeno.

Dal rito al teatro, per richiamare un altro studio fondamentale di V. Turner, il quale spiega l’inevitabile passaggio dalla potenza sacra del rituale alla degradazione spettacolare della messa in scena. Nel rito tutti partecipano, anche se con funzioni diverse, nello spettacolo ci sono gli attori e gli spettatori, ed anche questo accenna alla differenza tra lo sport praticato e lo sport “seduto”, tra atleti e pubblico. Ed indica anche una forma di degradazione dello sport nella sua spettacolarizzazione mediatica su cui si gettano il mercato e il marketing che rischiano di sopraffare l’essenza stessa del gesto atletico.

Il gioco con regole di tipo competitivo, che comporta l’uso intenso del corpo e del movimento, è appunto lo sport. Ma non è di questo che vogliamo parlare qui. Al cuore dello sport moderno c’è quindi la competizione che sembra anch’essa essere una componente fondamentale dell’essere umano. I bambini, anche nel gioco spontaneo da spiaggia, si accordano sulle regole, e poi si sfidano in una gara di abilità, in cui si cerca di vincere ma continuando a sapere che chi perde è comunque un tuo amico e compagno di giochi. Secondo alcuni l’origine della parola competere deriva dal latino cum-petere, cercare insieme. Anche se questa etimologia non fosse corretta indica però che nella competizione c’è sempre all’opera la collaborazione e, in fin dei conti, la fratellanza. Competere per migliore se stessi, competizione come affinamento delle abilità psicofisiche, per tutti.

Sì perché, nonostante che da diversi secoli ci si ripete che siamo degli animali egoisti, in realtà non saremmo sopravvissuti come specie se non avessimo imparato a collaborare. I neuroni specchio e l’intero circuito neurale dell’empatia stanno lì a ricordarcelo nelle più intime fibre del nostro essere neurofisiologico. Noi sentiamo e sappiamo quello che gli altri sentono e sanno, solo così possiamo coordinarci e collaborare. Allora alla base della competizione e perfino delle Olimpiadi c’è la collaborazione. Ed è stato giusto inserire il quarto motto olimpico, su cui però non si sono spesi molti commenti. Credo che si tratti anche in questo caso dell’effetto della pandemia. Dopo un anno di chiusura e ricerca affannosa di rimedi contro il Covid abbiamo reimparato che non ci si salva da soli. La competizione tra centri di ricerca ha sviluppato la collaborazione, nonostante le speculazioni economiche che possiamo immaginare.

Si tratta sempre di un dono che deriva dal limite. È dalla riscoperta del nostro essere limitati e mortali, minacciati tutti quanti assieme, che è venuta fuori una poderosa spinta alla collaborazione internazionale. Noi siamo animali socievoli con tendenze aggressive, come ci ricorda l’etologia. Corriamo, ci sfidiamo, pensiamo di vincere, di essere i più forti, cerchiamo affannosamente momenti di gloria. Persino la pista percorsa dall’atleta solitario è alla fine una metafora della vita stessa, “la pista che tutti devono percorre”. Ma forse la vita non è una corsa ma un tiro al bersaglio e vince non chi arriva primo ma chi fa centro nel suo bersaglio, che è solo suo, diverso da tutti gli altri bersagli. Cogliendo il proprio limite si scopre allo stesso tempo il bisogno essenziale che si ha degli altri, il bisogno di un dono reciproco. Dentro la competizione si coglie allora una prima e più essenziale collaborazione, quella con la natura e con gli altri esseri viventi. Allora, come usciremo dalla crisi? Insieme.

“Quando ne abbiamo abbastanza di regole e regolamenti, quando siamo stanchi…dei risultati che noi stessi desideriamo, possiamo sempre metter da parte il nostro cronometro, abbandonare la pista, gettar via le nostre scarpe chiodate e correre, come Roger Bannister, a piedi nudi sulla sabbia compatta del bagnasciuga vicino al mare”. Insieme.    

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