HomeEditorialiDa Wimbledon a Wembley: il Fair Play che scompare  La coppa dell’altro argento “rubata” alla Tribù del Calcio (di P.L.Palmieri)

Da Wimbledon a Wembley: il Fair Play che scompare  La coppa dell’altro argento “rubata” alla Tribù del Calcio (di P.L.Palmieri)

di Pierluigi Palmieri

Abbiamo rubato agli inglesi l’osso che tenevano stretto tra i denti sin dal primo minuto della partita di domenica 11 luglio 2021, data storica per il calcio italiano e anche per quello britannico. Noi aspettavano da lustri di vincere di nuovo il Campionato Europeo (ultima conquista nel 1968) ma loro in finale non erano mai andati. Ai mondiali invece avevano un precedente unico ma prestigioso: l’Inghilterra aveva conquistato il titolo nel 1966 vincendo la Coppa “Rimet” proprio nello Stadio di Wembley.

Con un pizzico di ironia e facendo un po’ di satira, potremmo dire che guardando il mezzo bicchiere pieno in finale avevano “sempre” vinto. Nella memoria di chi come me quel Mondiale del ‘66 lo ha seguito in TV, risuonano ancora le parole incredule e quasi sussurrate del mitico telecronista Nicolò Carosio:

 “Ha segnato Pak Doo –Ik”. L’Italia  fu eliminata dalla Corea del Nord, nella fase a gironi; ma ricordo anche i commenti non proprio eleganti conseguenti alla concessione di un gol  al cannoniere Hurst  per  un pallone mai entrato nella porta della Germania,. Gli inglesi vinsero 4 a 2 e la Regina Elisabetta poté consegnare al mitico Bobby Moore capitano dell’Inghilterra la Coppa, che  a detta dei tedeschi  e non solo,era stata “rubata.

Questo breve feedback mi aiuta ad entrare nel merito di quanto accaduto, nel calcio e nel tennis, lo scorso 11 luglio a Londra. So che le mie riflessioni, fatte a posteriori, rischiano di  apparire supponenti, ma hanno un fondamento. Intanto comincio con il mettere in rilievo un importante “denominatore comune” che mi fa considerare le due nazioni sportive da un medesimo punto di vista e di conseguenza a mettere sullo stesso piano la loro situazione psicologica: si tratta dell’ attesa. Questa presenta una doppia analogia: una sul piano temporale, perché, se alla data fatidica (11 luglio) si fa un confronto tra i due eventi sportivi che stiamo prendendo in considerazione,  si riscontra una  identica condizione: l’Inghilterra (nel calcio) e l’Italia (nel tennis) non avevano “mai” raggiunto una finale.

Postulato che nello sport nessuno, singolo o squadra che sia, scende in campo con l’intento di perdere, sul piano delle aspettative in Italia la conquista della finale di Wimbledon da parte di Matteo Berrettini, aveva suscitato negli appassionati, sulla stampa e tra gli addetti ai lavori un entusiasmo appagante e di per sé paragonabile, come risultato,  alla vittoria.

Ciò non era avvenuto in occasione della prima volta di sempre per l’Inghilterra alla Coppa Europa di calcio. Gli inglesi avevano  immaginato di mettere sotto l’Italia pensando al “ranking per nazioni”  che per quest’anno li vedeva nettamente avanti agli azzurri grazie ai successi delle loro  squadre di Club  nelle Coppe europee. Ma anche alla possibilità di riempire di tifosi le tribune del loro tempio. Gli esiti degli incontri di Wimbledon e di Wembley sono noti a tutti, come pure la differente reazione di Berrettini rispetto a quella dei giocatori inglesi al momento di ricevere il premio previsto per i secondi classificati. Matteo, sull’erba di Wimbledon, ha acceso, con la pienezza della sua soddisfazione, il piatto d’argento, metallo che, come  sappiamo dalla chimica, è il miglior conduttore di elettricità. Stringendolo tra le sue manone, Berrettini lo ha reso  bianco e lucido più che mai e lo ha mostrato orgogliosamente al pubblico che ha risposto con una standing ovation

Qualche ora più tardi a  dieci chilometri di distanza al termine di Inghilterra- Italia di calcio, l’atteggiamento del pubblico inglese e dei loro  giocatori premiati ha assunto contorni del tutto opposti. Gran parte del pubblico non ha ritenuto di restare sugli spalti per assistere alla premiazione delle due squadre. I giocatori inglesi hanno di fatto rifiutato di tenere la medaglia al collo e nascondendola tra le mani ne hanno spento la lucentezza.

L’elettricità del tennista romano era stata caricata dal Tie-break vincente nel primo set contro NovaK Dokovic, numero uno al mondo,

Quella  degli inglesi, che era salita al massimo dopo il gol segnato quando le lancette del cronometro avevano superato da poco il primo minuto con tanto di sfottò di stampo italiano (“po poro popopopo” ), si è scaricata a terra e non sull’argento delle medaglie a causa del “para” fulmine Donnarumma.

 Su questi comportamenti tutti i giornali e le televisioni, non solo in Italia, hanno espresso per tutta la settimana critiche feroci, a cui  sul web si sono affiancati post di satira anche molto spinta.

Mi associo ovviamente alla condanna unanime, ma mi piace dare una mia particolare lettura dei fatti di Wembley facendomi aiutare proprio da uno scienziato e sociologo inglese, Desmon Morris.

L’autore di La scimmia nuda, è andato personalmente nei paesi più disparati nel mondo per far un’analisi comparativa con il calcio inglese e ha aggiunto alla sua ricca produzione scientifica un libro, di oltre trecento pagine, dal titolo La tribù del Calcio.  Una sua prima, sacrosanta deduzione, riguarda la folla sugli spalti che definisce  “gruppo strutturato che si riconosce in  particolari simboli e apposite liturgie”. Nel rito collettivo a dare forza al branco sono strumenti di comunicazione simbolica come magliette, bandiere, cori. A proposito di cori voglio sottolineare che le tifoserie inglesi, già alla vigilia del Campionato Europeo avevano rispolverato, per il “loro” fooftball, il motto “It’s coming home” (letteralmente “sta tornando a casa), a sottolineare che quello sport è nato in Inghilterra, ma dimenticando  che la canzone da cui esso è tratto è una “sorta di lamento per gli insuccessi della nazionale dei Tre Leoni, con un unico Mondiale vinto e  un invito ai tifosi a non perdere la speranza nei confronti di una vittoria che non è destinata ad arrivare (una sorta di lamento per gli insuccessi della nazionale). Per dirla in altri termini.. “si sono portati sfiga da soli”.

    Morris, sociobiologo,  nel ricercare le origini del significato simbolico della Coppa adottata dalla “Tribù” sostiene che bisogna tornare indietro all’epoca classica quando i commensali, greci e romani, per il “brindisi alla salute”  bevevano ciascuno un sorso  di bevanda  passandosi la  coppa che veniva lasciata in dono al festeggiato. Questo rituale  è stato adottato e trasformato  in Inghilterra , dove per secoli  è stata mantenuta l’usanza di far passare tra i commensali un enorme “coppa dell’amicizia”. Ognuno, dice Morris trattava il compagno, come un “onorato superiore” in una generale dimostrazione di lealtà di gruppo.  Successivamente le coppe venivano fuse esclusivamente per essere regalate alla persona da “onorare”, e nel caso dello sport, come nella tradizione greca , l’atleta risultato vincitore poteva conservare la “coppa dell’amicizia”.

Morris ricorda che fu proprio il quotidiano di Londra “Sportmen” a lanciare per primo l’idea di premiare la squadra vincitrice di un Torneo di calcio con una Coppa.

Ora i concetti di lealtà, amicizia, “rispetto” delle regole e dell’avversario, onore,  sono state ormai da tempo sintetizzate nelle due parole inglesi “fair play”.

Sono del parere che se questo fai play è stato mortificato a Wembley tempio del calcio, ma ha trionfato  Wimbledon tempio del tennis , come avviene a  Twickenham con il rugby  anche quando gli inglesi perdono,  significa che il problema  non è “tutto” inglese, ma che il fenomeno calcio presta il fianco a condizionamenti che altri sport  non subiscono.

Ciò si può spiegare col fatto che buona parte della tifoseria calcistica vive senza orizzonti di senso e in piena emarginazione sociale, ma la “giustificazione” ovviamente non vale per i calciatori miliardari che hanno oscurato l’argento della medaglia  che, volendo adottare la terminologia delle Olimpiadi, hanno “vinto” ( lì, peraltro si “vince” anche il bronzo!).

E’ ora che  le migliori intelligenze sociologiche pedagogiche e filosofiche pensino a proporre gli strumenti per  far comprendere ai tifosi “non sportivi”, che  senso di appartenenza, spirito di aggregazione sociale,  desiderio di vincere e di riscattarsi, appartengono anche agli avversari di turno e che  rispettandoli si rispetta empaticamente se stessi. Altrimenti ogni perdente seguiterà a credere che la coppa dell’amicizia  gli è stata rubata dal “nemico”. 

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