HomeLa RivistaUNA RISORSA INDUSTRIALE O UN POZZO SENZA FONDO? Breve saggio sulle verità delle vicende dell’ILVA di Taranto

UNA RISORSA INDUSTRIALE O UN POZZO SENZA FONDO? Breve saggio sulle verità delle vicende dell’ILVA di Taranto

                                                                                                                 di Vincenzo Rienzi*

Ho avuto il privilegio di patrocinare il processo penale più importante della Storia d’Italia, che si è concluso il 28 giugno 2021 a Taranto. La Corte di Assise ha condannato la famiglia Riva, gli ex vertici dell’ILVA e altri Pubblici Ufficiali più o meno coinvolti nelle vicende che hanno contraddistinto la città di Taranto dal 1992 al 2012 a pene che sommate superano i 100 anni di reclusione.

Eppure, sono incazzato!

Perché oggi, 11 anni dopo l’entrata dello Stato nella Fabbrica (considerate dal 2012 la presenza di Commissari nominati dal Ministero dello Sviluppo economico), unica cosa che si è riusciti a fare è stata coprire i parchi minerari, una distesa grande come 10 campi di calcio che, a causa dei venti, costringe ancora oggi tanti cittadini a chiudersi in casa per non respirare polveri piene di metalli cancerogeni….

Proviamo ad andare con ordine.

Il Gruppo ILVA è la più grande realtà industriale siderurgica Europea. Lo stabilimento maggiore è stato fondato a Taranto nel 1961 ed è il più grande d’Europa: è un impianto siderurgico a ciclo integrale, ciò significa che il ciclo produttivo parte dal minerale grezzo ed interessa tutte le fasi produttive successive dei prodotti intermedi in continuità fino al prodotto finale. E’ perciò un centro di lavorazione dove il minerale di ferro viene trasformato in ghisa e successivamente in acciaio. Questione principale che riguarda tale impianto sono le continue emissioni inquinanti dovute alle attività produttive e che hanno causato nei vari decenni un numero imprecisato di morti tra gli operai del sito ed i cittadini di Taranto.

Per avere una percezione, per quanto parziale, dell’impatto ambientale che un impianto come quello dell’ILVA di Taranto può generare, basti pensare che esso sviluppa 190 km di nastri trasportatori, 50 km di strade e 200 km di ferrovia; dispone di una flotta per la spedizione ed importazione dei prodotti di 8 chiatte e 4 rimorchiatori nonché di 6 banchine per l’attracco delle navi. Il sito inoltre comprende 8 parchi minerari, 2 cave, 10 batterie per produrre il coke con il quale vengono alimentati gli altiforni, 5 altiforni, 2 acciaierie con convertitori LD e 5 colate continue, 2 treni di laminazione a caldo per nastri, un treno di laminazione a caldo per lamiere, un laminato a freddo, 3 linee di zincatura, 3 tubifici. Vi sono 215 camini industriali di cui il più alto è di 210 m di altezza. Nel porto di Taranto attraccano circa 800 navi all’anno destinate all’ILVA. Dal porto minerale del ferro viene trasportato lungo nastri trasportatori di decine di km fino ai parchi minerari dello stabilimento formando montagne alte anche 20 m che occupano una superficie grande come 90 campi da calcio. I parchi minerari sono a cielo aperto e si ergono su suolo non impermeabilizzato, rendendo facile la contaminazione della falda sottostante, soprattutto quando per contenere la contaminazione i parchi vengono bagnati”.

(Fonte: https://www.unionedirittiumani.it/wpcontent/uploads/2018/04/IndustrieItaly711italienWEB-4.pdf).

Da questo quadro appare evidente l’impatto ambientale dello stabilimento siderurgico, ma va sottolineato inoltre che l’ILVA di Taranto è stata realizzata nel pieno contesto urbano, più precisamente in corrispondenza del quartiere Tamburi. Il pericolo ambientale ed il rischio per la salute è sempre stato noto  ai medici, i quali sin dagli anni ’90 constatavano un aumento notevole di malattie da mesotelioma, leucemie, patologie tumorali e malattie tiroidee.

Angelo Bonelli, nel suo libro Goodmorning diossina, denunciava che “Nonostante vi fossero segnali preoccupanti dal punto di vista sanitario, collegati alla grave situazione di inquinamento ambientale, le istituzioni si dimostravano immobili e latitanti”.

È soltanto a partire dai primi anni 2000 che i controlli sulle emissioni diventano più incisivi e diversi studi hanno registrato nel 2007 che

le emissioni di diossina dell’ILVA di Taranto arrivano a toccare il 90,3% del totale industrialenazionale; vengono denunciate le lentezze della Regione Puglia; l’Arpa fa i primi monitoraggi sulladiossina ILVA; dai dati si scopre che dall’Ilva viene emessa diossina equivalente a 10 milainceneritori; Nel 2008 I cittadini di Taranto commissionano analisi di diossina su sangue, lattematerno e matrici alimentari e così si scopre che a Taranto la diossina è entrata nel corpo umano eanche negli animali perché il pecorino risulta contaminato oltre i limiti di legge; Nel 2010 si assistead un vero e proprio Maxisforamento di benzo(a)pirene cancerogeno, la Procura accelera leindagini. Il governo il 13 agosto, mentre la gente è in vacanza, sospende il limite per ilbenzo(a)pirene con una norma nascosta in un DPR. Nel 2011 – il Fondo Antidiossina commissiona leanalisi sui mitili, si scopre che la diossina è entrata nelle cozze; scatta un nuovo fronte di indagine;ancora una volta sono i cittadini ad indagare e denunciare;

Nel 2012 vengono disposte una Perizia chimica ed epidemiologica ordinata dal GIP Patrizia Todisco;la magistratura con quelle perizie ravvisa un “disastro ambientale” e un eccesso di mortalità causatodall’ILVA; (Fonte: https://www.peacelink.it/processoilva/a/48496.html).

            

Così Il 25 luglio 2012 lo stesso GIP Todisco firma l’ordinanza di sequestro senza facoltà d’uso di tutti gli impianti dell’area a caldo ed inizia così il processo “AMBIENTE SVENDUTO”.

La procura sostiene che terreni, allevamenti, prodotti caseari sono contaminati da diossina e non solo. Il blocco degli impianti comporta anche i primi arresti: ai domiciliari finiscono i vertici dell’azienda e diversi dirigenti. Le accuse sono di disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e avvelenamento di sostanze alimentari. Secondo i periti e i carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico di Lecce, ogni anno dalla fabbrica si sollevano oltre 700 tonnellate di polveri che si abbattono sul vicino quartiere Tamburi e su altre zone della città. La gestione dell’impianto passa così ai custodi giudiziari.

Nel novembre del 2012 il GIP Todisco incrimina i nuovi vertici del gruppo per non aver adottato le soluzioni avanzate dai custodi atte a contenere le emissioni dannose per l’ambiente e la salute dei cittadini di Taranto. Ordina anche la confisca della produzione realizzata dal momento del sequestro degli impianti.

Da questo momento in poi sarà durissimo lo scontro tra la Procura di Taranto ed il Governo italiano. Con Il decreto legge 207 del 3 dicembre 2012, il Governo dichiara l’Ilva “stabilimento di interesse strategico nazionale”. Questo ha consentito di riprendere la produzione per un periodo di tempo determinato e non superiore a 36 mesi con obbligo di adempiere alle prescrizioni AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) e permettere all’azienda di rientrare in possesso dei beni. La Procura è stata così costretta a rilasciare gli impianti, ma darà parere negativo sulla riconsegna totale dei prodotti dell’impianto. La controversia finisce dinanzi alla Corte costituzionale che darà ragione al governo sostenendo che c’è un tempo accettabile perché Ilva si adegui alle migliori tecnologie disponibili.

Nel frattempo il GIP Todisco rigetta l’istanza di dissequestro dell’Ilva, ma il Governo con la legge 231/2012 autorizza lo stabilimento a commercializzare i prodotti finiti e semilavorati sotto sequestro.

La procura di Milano inoltre emette nei confronti dei Riva un ordine di sequestro pari ad 1.2 miliardi di euro nell’ambito di un’inchiesta per reati finanziari a cui segue quella del GIP Todisco che dispone il sequestro per equivalente di 8.1 miliardi di euro del patrimonio dei Riva pari al costo stimato del piano adeguamenti ambientali. A seguito del grande seguito mediatico nonché giudiziario, il Consiglio di Amministrazione si dimette ed il Governo Letta decreta il commissariamento dell’azienda. Evidente è a questo punto la crisi per Ilva.

Ad ottobre 2013 la procura chiude le indagini: oltre 50 risultano essere le persone coinvolte. A luglio 2015 gli imputati vengono rinviati a giudizio: comincia il processo dinanzi alla Corte d’assise che tuttavia viene annullato qualche mese più tardi. Si torna in udienza preliminare per un nuovo rinvio a giudizio. Il secondo processo comincia nel 2016.

Chiusa questa breve parentesi, bisogna considerare che nel dicembre 2014 la Consulta annulla la confisca di 8.1 miliardi e viene dichiarato il fallimento di ILVA nonché la sottoposizione dell’impianto ad un regime di amministrazione straordinaria. Il Governo Renzi prevede così un nuovo piano di salvataggio dell’azienda ed il trasferimento delle attività ad una nuova società a partecipazione pubblica volta a gestire le fasi di risanamento ambientale al fine di mettere sul mercato l’azienda.

Il 4 gennaio 2016 il Governo nella persona del Ministro dello sviluppo economico, pubblica il bando di messa in vendita dell’impianto. dichiarando che il piano ambientale sarebbe stato modificato a seguito delle proposte formulate dai progetti degli acquirenti che avrebbe portato di fatto ad una nuova AIA. Con decreto 98/2016 viene estesa l’immunità penale ed amministrativa per le condotte poste in essere all’attuazione del piano ambientale anche ad acquirenti ed affittuari dell’impianto con scadenza fissata da tale AIA ad agosto 2023. Il 5 giugno del 2017 si aggiudica la vittoria MITTAL con un’offerta pari ad 1.8 miliardi. Viene firmato l’accordo con l’allora Governo, ma la proposta di MITTAL non prevedeva alcuna modifica della struttura base del piano produttivo dello stabilimento.

Tra il dicembre 2017 ed il gennaio 2018 vengono incriminati il Presidente della Regione Puglia, l’assessore all’ambiente, l’assessore alle politiche giovanili per tentata concussione e concussione aggravata nei confronti dei vertici ARPA; l’allora presidente della Provincia e l’assessore all’ambiente per concussione , l’ex sindaco per omissione di atti d’ufficio ed il direttore ARPA per non aver ammesso e denunciato di essere stato concusso  e accusato di favoreggiamento; alcuni esponenti Legambiente, alcune associazioni cittadine, alcuni sindacalisti e medici dell’Associazione Medici italiani per l’ambiente.

Nel luglio del 2018 il Governo Conte chiede all’ANAC di indagare sulle regolarità della procedura di gara che hanno portato alla vendita da parte dello Stato a MITTAL ed inizia a profilarsi l’ipotesi dell’esclusione dell’immunità penale ed amministrativa per il nuovo gruppo dirigente ex ILVA. La legge 128 del 2019 elimina tale protezione ed il 4 novembre 2019 MITTAL comunica ufficialmente di voler recedere dal contratto firmato nel gi

ugno 2017. Nel marzo 2020 i commissari ILVA in amministrazione straordinaria ed i vertici di ARCELOR MITTAL firmano l’accordo che estingue le cause civili in corso e modifica il contratto d’affitto e successiva acquisizione.

Nel gennaio 2021 è stato sancito l’ingresso di INVITALIA con versamento della relativa quota nel capitale sociale di AM InvestCo Italy S.p.a. ( Arcelor Mittal).

Finalmente il 31 maggio  2021 Dopo quasi 4 anni, centinaia di udienze e di testimoni, migliaia di parti civili e una mole incredibile di documenti, le contro-perizie dei principali imputati e la difesa di tutti gli altri, arriva la sentenza di primo grado sul processo “AMBIENTE SVENDUTO”: dopo 11 giorni di camera di Consiglio al termine del dibattimento che ha coinvolto 47 imputati di cui 44 persone fisiche e 3 giuridiche, con la procura che aveva chiesto 35 condanne per un tot di 400 anni di carcere, i giudici hanno condannato i principali imputati del processo AMBIENTE SVENDUTO, riconoscendo l’impianto accusatorio e disposto la confisca degli impianti dell’area a caldo dell’acciaieria ex ILVA di Taranto.

All’esito della rappresentata vicenda giudiziaria penale e delle eccessive lungaggini processuali, risulta lecito chiedersi quale sia la responsabilità dello Stato italiano a fronte di questa contorta e problematica vicenda.

Il quadro giuridico attuale rileva sicuramente l’avvenuta violazione dei diritti umani e la responsabilità delle imprese nel rispettare tali principi di natura costituzionale nonché comunitaria.

Nel caso ILVA, come riportato da numerosi studi scientifici condotti nel corso degli anni, la situazione è particolarmente grave ed allarmante, ed ha portato alla compromissione di numerosi diritti umani di carattere costituzionale nonché comunitario, come il diritto alla vita, alla salute ed il diritto a vivere in un ambiente sano: Lo Stato italiano ha ritardato di fatto  l’adozione delle misure preventive necessarie a contenere e prevedere il rischio concreto derivante sulla popolazione, relativo all’esposizione continua e prolungata delle emissioni sulla popolazione nonostante le condanna della CGUE nei confronti dell’Italia avvenuta  nel 2011, la procedura d’infrazione della Commissione europea avviata nel 2013 e l’indagine approfondita avviata dalla stessa Commissione nel gennaio 2016,  relative alla mancata attuazione da parte dell’Italia delle direttive UE in materia ambientale.

Inoltre, dal 2012 ad oggi, bisogna ricordare come il Governo italiano abbia adottato una serie di provvedimenti legislativi che hanno molto spesso impedito o rallentato l’attività della magistratura e l’adeguamento agli adempimenti richiesti dall’UE.

Rilevante inoltre come la popolazione di Taranto non sia mai stata avvisata del grave rischio legato alla gravità della situazione e di come non abbia mai ricevuto adeguate informazioni per poter valutare i rischi nel continuare a vivere e lavorare in corrispondenza dell’area ILVA. Questa situazione e la lungaggine del processo penale ha sicuramente portato ad una sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni che avevano il compito di proteggere i cittadini.

Il 28 giugno la Corte d’Assise di Taranto ha come sopra evidenziato, disposto la confisca degli impianti dell’area a caldo dell’acciaieria ex ILVA di Taranto. Gli impianti, però, per ora resteranno operativi fino al giudizio finale della Corte di Cassazione. Continuerà quindi a funzionare.

Nemmeno sul  piano amministrativo la vicenda si ferma: lo scorso 13 febbraio il Tribunale Amministrativo della Puglia aveva stabilito che entro 60 giorni l’area a caldo dell’acciaieria avrebbe dovuto essere spenta, perché continuava a inquinare. Al TAR si era arrivati dopo un’ordinanza del sindaco di Taranto sulle emissioni inquinanti: Melucci, col suo provvedimento, aveva disposto che ArcelorMittal Italia e ILVA in amministrazione straordinaria (cioè gestore e proprietario dell’acciaieria) dovessero individuare le fonti inquinanti e rimuoverle. Il provvedimento era stato impugnato, ma il TAR aveva sostanzialmente confermato le ragioni alla base dell’ordinanza. ArcelorMittal aveva impugnato l’ordinanza del TAR davanti al Consiglio di Stato, che il 19 febbraio aveva respinto la richiesta della multinazionale di sospendere la decisione di spegnere l’area a caldo dell’acciaieria. Il 13 maggio era attesa la decisione del Consiglio di Stato che avrebbe dovuto confermare o meno la sentenza del TAR, ma quel giorno era stato annunciato che si sarebbe preso altro tempo per esaminare la questione e che la decisione sarebbe stata presa entro poche settimane, ed alla fine di queste settimane, Il Consiglio di Stato quarta sezione ha respinto la sentenza del TAR di Lecce che stabiliva lo spegnimento dell’area a caldo dell’acciaieria ex ILVA.

L’area a caldo dell’ex ILVA potrà quindi continuare a operare.

I giudici del Consiglio di Stato hanno ritenuto che il potere di ordinanza di Melucci fosse stato esercitato in assenza dei presupposti di legge, non emergendo la sussistenza di «fatti, elementi o circostanze tali da evidenziare e provare adeguatamente che il pericolo di reiterazione degli eventi emissivi fosse talmente imminente da giustificare l’ordinanza contingibile e urgente, oppure che il pericolo paventato comportasse un aggravamento della situazione sanitaria in essere nella città di Taranto, tale da indurre ad anticipare la tempistica prefissata per la realizzazione delle migliorie» dell’impianto.

La decisione del Consiglio di Stato non riguarda però un’altra richiesta di spegnimento dell’ex ILVA, avanzata invece dalla Corte d’Assise di Taranto il 31 maggio, insieme alle sentenze di primo grado del processo chiamato “AMBIENTE SVENDUTO”, sulle irregolarità nel controllo ambientale dell’acciaieria.

E’ inoltre notizia del 1 luglio 2021 che L’Ad di Acciaierie d’Italia Lucia Morselli ha rilasciato una lunga intervista al Sole 24Ore. Tra i passaggi salienti anche l’annuncio del ricorso al Tar Lazio contro il fermo della batteria 12 della cokeria di ex Ilva. «Venerdì scorso – ha chiesto il giornalista del Sole Fabio Tamburini – il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha negato, per decreto, la proroga dei termini per alcuni interventi ambientali, prevista per il 30 giugno.

E adesso che cosa farete?

In tempo di Covid – ha risposto Lucia Morselli – e con i provvedimenti di proroga generalizzata relativi non ci sembra una decisione giusta. Per questo ieri mattina abbiamo fatto ricorso al Tar del Lazio. L’Unione europea ha rivisto il Pnrr dell’Italia escludendo che i fondi europei possano finanziare per l’ex Ilva l’uso del gas, dicendo Invece che le misure messe in campo devono sostenere la produzione di idrogeno elettrico da energia rinnovabile”.

Come ne uscirete?

“Le do una anticipazione: gli impianti dell’ex Ilva sono in grado di produrre già da ora anche idrogeno, utilizzabile nella produzione di acciaio tramite ciclo integrale. In tempi brevi ci saranno novità sull’utilizzo dell’idrogeno in linea di produzione. Sarà un esempio virtuoso di economia circolare altamente sostenibile”».

Tante parole, ma pochi fatti potremmo dire. Tanti soldi, ma poca sostanza.

Sono una persona molto espansiva, lo ammetto. Estroversa per indole. Mi piace conoscere, capire, sentire, percepire, non riesco mai a fermarmi davanti all’apparenza delle cose.

Ebbene, nei 10 anni che mi hanno portato a diventare – mi perdonino i tarantini ma lo sento come vero motivo di orgoglio – cittadino onorario di quella bellissima città, un filo conduttore ha legato tutte le mie numerose visite nel capoluogo pugliese: ovunque mi recassi, a cena, a pranzo, a prendere il caffè o a fare benzina. Ogni persona che ho avuto il piacere di conoscere mi ha parlato di uno zio, padre, madre, parente, morto a causa di un tumore.

E i dati, invero, lo confermano: + 125% di insorgenza di patologie tumorali rispetto alla media nazionale… tanto basterebbe, per fare una rivoluzione, ma in 40 anni questa rivoluzione non è mai iniziata, tuttavia – mi si consenta un po’ di sarcasmo che tanto siamo tra amici … in epoca COVID lo Stato si è indebitato per oltre 100 miliardi di euro, per far fronte a una pandemia mondiale e Taranto, l’ex ILVA, che per essere bonificata necessiterebbe di 6 miliardi, sta così da 40 anni…

Non mi piace, NON MI PIACE!!

Perché nella nostra civiltà non si può barattare il lavoro con la vita, la produttività con la salute, l’esigenza di salvaguardia di valori tangibili con il supremo diritto alla sopravvivenza, alla crescita dei nostri figli, alla salubrità dell’aria che respiriamo, dell’acqua che beviamo, o della mozzarella o delle zucchine che mangiamo.

Quella dell’Ilva di Taranto sembra quindi una storia infinita, che ancora per il momento non è destinata a trovare una fine a discapito di tutti i cittadini tarantini che vivono in prima persona le sofferenze che questo impianto fuori norma provoca da molti decenni tra il silenzio delle istituzioni e lungaggini processuali.

Noi però continueremo a batterci, per i tarantini, per la loro vita, per il loro diritto alla salute, mai per nessun altro.

*Avvocato Codacons

Articolo scritto in collaborazione con la Dottoressa Valeria Pietrangeli

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