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Sul confine, tra il ponte e la porta

Diversi anni fa, con le mie figlie ancora bambine, mi è capitato di attraversare in bicicletta il confine tra l’Italia e l’Austria, per andare da Cortina a Lienz. Passando dove un tempo c’erano le garitte delle guardie e i passaggi a livello, ora non c’era più nessuno. Nessuno che ti chiedeva il passaporto e nella silenziosa velocità della bicicletta pensavo a quanto sangue era stato versato per quei confini. Al netto della bellezza del paesaggio e dell’esperienza vacanziera, lì ho avuto la sensazione fisica dell’appartenenza all’Unione Europea. Ecco perché ogni volta che compaiono le guardie sui confini quella bella sensazione di unità la sento entrare in crisi. Ecco perché ho vissuto la Brexit come una sconfitta personale. È vero quello che hanno scritto alcuni commentatori che, durante la pandemia, abbiamo riscoperto lo stato, la nazione, perché da essa e dai nostri concittadini ci siamo aspettati un aiuto e un conforto immediato, ma è poi dall’Europa che ci attendiamo un sostegno economico e dalla comunità internazionale che ci sono venuti i vaccini. Continuo a nutrire un sogno cosmopolita che unifichi un giorno la famiglia umana sul nostro pianeta, ma so che esistono limiti e confini. So che L’Unione Europea a 27 paesi non si può espandere ancora ad est e che l’Ucraina dovrà rimanere uno stato cuscinetto, perché non possiamo confinare direttamente con una grande potenza come la Russia, come so che la Turchia non può entrare nell’Unione e rimarrà come intercapedine con il mondo arabo mediorientale.

Il confine è uno dei sinonimi del limite. Una politica ed anche una pedagogia del limite e del confine credo che abbiano ancora un senso. Sul confine si incontra e si può accogliere lo straniero e questo indica la costitutiva esposizione all’evento dell’altro, all’ospitalità. Un’accoglienza a cui è impossibile sottrarsi e che depone la presunta sovranità assoluta del Soggetto, avrebbe detto il filosofo francese J. Derrida. Egli distingueva l’ospitalità dal problema dell’immigrazione e dai controlli dei flussi migratori, sapeva che non sono la stessa cosa ma sono comunque inseparabili.

Ho detto confine, non ho detto muto. Il confine è dove ognuno di noi comincia. Il margine è dove inizia la possibilità, non dove qualcosa finisce, esso rappresenta ciò che mi manca e ciò che io non sono. È la differenza come confine dialogico, la differenza come opposizione ma anche come relazione.

Anche se il vento della globalizzazione ha scompigliato i confini tra le nazioni questi persistono e pongono il problema della cittadinanza. Per Aristotele cittadini si nasce. La cittadinanza non è solo partecipazione ma lascito naturale. Questa omogeneità garantirebbe l’amicizia civile e la vita buona. La cittadinanza si eredita per ius sanguinis e ius soli, attraverso il sangue e attraverso una non specificata proprietà del suolo, una comunità etnica (non a caso nazione deriva da “nasci”, nascere). A questa concezione, che possiamo definire anche repubblicana, si contrappone quella liberale di Locke, la cittadinanza come contratto. Qui prevale l’individuo più che la comunità. Oggi è però necessario separare il Demos dall’Ethnos, il popolo dall’etnia. Oggi c’è un popolo multietnico, una democrazia che non coincide con l’ethnos, un’appartenenza etnica di destino e memoria. L’accoglienza di cittadini stranieri non è necessariamente condivisione della propria tradizione etnica, della propria forma di vita, dei propri valori, bensì della cultura politica, imprescindibile per la cittadinanza. E comunque si ripropone sempre l’interrogativo: può esistere una democrazia cosmopolita, una cittadinanza globale?

È stato detto che, da sempre, quando i gruppi umani si incontrano si aprono tre alternative: farsi la guerra, separarsi, magari con un muro, oppure parlarsi. Ed è sul confine che ci si incontra, che ci si parla, che ci si scopre fratelli diversi. È sulla soglia di casa, luogo di incontro e di separazione, che si accolgono gli amici e gli stranieri. In un geniale saggio, il sociologo tedesco G. Simmel, dice che è soltanto l’essere umano che, di fronte alla natura, possiede la capacità di unire e dividere. Siamo noi che in ogni istante separiamo ciò che è unito e colleghiamo ciò che è separato, e possiamo unire proprio perché prima abbiamo distinto. Un emblema di questo destino umano è il ponte: per noi, e solo per noi umani, le sponde del fiume non sono semplicemente esterne ma sono anche separate e possono essere colmate da un ponte che unisce due punti che esistono solo per noi. Il ponte unisce ciò che solo per noi è separato e lo rende stabile nel tempo. Ma, mentre il ponte pone l’accento sulla separazione che lui stesso supera, cosa diversa è la porta. Simmel dice che la porta è il simbolo di come separazione e congiunzione non siano altro che due facce della stessa azione. La porta parla, dice Simmel. Vuol dire che essa separa l’interno dall’esterno, pone un limite che la nostra libertà può superare. Sulla soglia, il limite è adiacente all’illimitato, nella possibilità di uno scambio continuo tra chiusura e apertura, tra mio e altro, tra dentro e fuori. Se il ponte collega il finito con il finito, la porta apre all’infinito. Se il ponte possiede la sicurezza incondizionata della direzione, per la porta non è indifferente se si entra o si esce. Per Simmel la porta diventa l’emblema dell’essere umano e della sua paradossale condizione, che è quella di un essere “che collega, che deve sempre separare e che non può collegare senza prima aver separato”, “l’uomo è l’essere limite che non ha limiti, l’essere-confinario che non ha confini”. Per incontrare l’altro devo avere un’identità, la quale mi serve però come ponte e come porta per dialogare con lui. È dalla soglia di casa che parto, “nella possibilità di muovere in ogni istante da questa situazione verso la libertà”.

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