HomeLa RivistaCultura&ArteAi confini dell’impero: Molineddu

Ai confini dell’impero: Molineddu

Molineddu.

Ovvero piccolo mulino, Lo spazio contenuto nella parte bassa di una lussureggiante vallata è stato oggetto di un fenomeno naturale che, alterandone l’aspetto, ne ha cambiato anche la destinazione d’uso. 

La frana di tufo che ha investito lo spazio, ora parco privato, aveva di fatto ridotto il territorio interessato ad una catastrofe inguardabile ed incurabile: immaginate alberi abbattuti, una casa semi diroccata  da un grosso masso…un campo bombardato! Solo la capacità visionaria ed il ciclopico, quotidiano, duro lavoro di lotta contro le burocrazie di varia natura e di risistemazione e adattamento della frana, da parte del suo proprietario, hanno trasformato la tragedia in ricchezza. 

Il luogo si impadronisce immediatamente del visitatore.

I profumi, i rumori soffusi di voli animali, creano le colonne sonore dell’ambiente, già declinato naturalmente dagli eventi naturali accennati che ne hanno connotato in maniera inusuale gli spazi .

I sentieri, che attraversano la vallata, appena tracciati, come schizzi primigeni di un quadro ancora da abbozzare, dalle mani sapienti del suo Genius Loci, Bruno Petretto pittore, sicuramente più conosciuto come uomo immagine di una recente, ben fatta pubblicità televisiva, in bianco nero, che racconta la bontà di una birra prodotta in Sardegna,  disegnano nel loro percorso campi visivisempre differenti, che si succedono e variano all’infinito il loro racconto graffito da insediamenti d’arte percepiti, dallo spettatore, nella loro frazione o interezza. 

E’ palese la presenza di una natura, espressivamente preponderante, che si mostra tutta nella antica capacità di auto organizzare e proliferare se stessa. 

Così, si passeggia fra questa vegetazione, intorno alle installazioni, qualche volta sculture, quadri, perfettamente inseriti nello spazio di Molineddu che li incorpora sino a farli propri. Scorci lontani di pareti tufacee scoscese e fette di cielo completano il quadro. 

La percezione che se ne ha è quella di opere d’arte, germogli e frutto di chissà quali piante, che lussureggiano per tutta l’estensione del parco dentro un esotismo che ti avvolge con i suoi colori e profumi intensi calandoti in un’altra dimensione, anche temporale. 

Lo spazio si succede fra avvallamenti, falsi piani, salite sempre incorniciate da una vegetazione apparentemente selvaggia, dove proliferano e convivono  enormi piante di albicocco a cui fanno compagnia dei ficchi che, mollemente, distendono le loro radici su enormi massi di calcare, in un infinito eterno stiracchiarsi, mentre ne accarezzano sinuosamente le rotondità dipinte o abitate da innumerevoli creature. 

Il contesto e il tema scelto per la manifestazione di quest’anno, la morte, trovano riscontro proprio nella percezione lussureggiante di una natura che indisturbata prolifica e inconsapevolmente termina e poi rinasce. 

Quasi la simbologia di una naturale liturgia cristiana dove la morte è in realtà la vita.

Le opere inserite nel parco sono frutto del lavoro di artisti che ogni anno si succedono e concepiscono, nello spazio del parco da loro scelto, le opere da installare temporaneamente o perpetuamente nel parco. 

Potenti le opere di Bruno Petretto che raccontano, sotto forme mosaicate un po’ rocaille, del passaggio di antichi Eroi, cosi come la percezione della fine di un albero, racchiuso nel tempo di uno scatto fotografico.

  

 

La bellissima Naiade di Giusy Calia che vive sul fondo del fiumicciatolo, fra le acque, vede la permanenza della dea in un tempo senza fine. 

Emma Lazzaroli che, con il suo lavoro Interazione, racchiude la sua incisione calcografica di notevoli dimensioni dentro un cilindro di polivetro e con essa crea appunto un processo di interazione,  attraverso i segni incisi ed il colore, con la natura circostante.

Roberto Puzzu usa una figurazione a metà fra l’iconografia religiosa classica e le carte da gioco. Una immagine doppia, che si contrappone nelle due facce. La sua disposizione diventa alla fine quella di un corpo appeso e rotante, di forte suggestione che, nella sua staticità pittorica, muove nella brezza sulle tracce dei versi di Villon.

 

Gian Mario Baldino ricorda l’antica presenza del mare dove reperti sotto forma di un gatto sornione, pesca altri reperti silhouette di piccoli pesci mentre, da un cono di rame, torreggiano un gruppo di guerrieri fissati, cristallizzati nel tempo. 

Cristian Lubinu, presente con numerose opere all’interno del parco, racconta delle solitudini e del senso di consunzione dell’opera d’arte attraverso operazioni formali che indagano la figurazione ( accanimento terapeutico) piuttosto che con l’opera che racconta di una forma atavica, con tutte le morbidezze di un corpo femminile, monocromatica, intessuta di rami sintetici blu con petali rosa consumati dalla luce e inglobati dal tempo. 

Viaggio in terza classe di Massimiliano Caria narra il ricordo, non necessariamente personale, dove l’opera tridimensionale si ricompone bidimensionalmente nell’immagine fotografica del catalogo, secondo la tecnica prediletta dall’artista. 

         

Marcello Cinque nel parafrasare il titolo dato alla sua opera, fresco di lana, pura lana vergine, costruisce una sapiente scultura pregna del sapore dei materiali che si integra alla perfezione la lussureggiante vegetazione circostante. 

  

La dimensione del lavoro di Pier Luigi Calignano sottende una sorprendente conoscenza della relazione fra opera e spazio; cosi il campo visivo viene composto da una struttura che lo disegna con l’intreccio di una sequenza segnica. 

   Carlo Lauricella, nella raffigurazione – ricordo del martirio del Santo, è testimone della violenza che il nostro mondo infligge alla natura che ci circonda. 

   

La morte, descritta attraverso una simbologia palese e solo apparentemente scontata è narrata dall’opera di Antonio Pirozzolo. Lo spazio, leggermente collinoso è occupato da una povera croce di legno, da una allusiva forma delle terga inferiori volutamente capovolta, dove è incollata la foto dell’artista, così come appare chiaramente anche nel manifesto da morto in esposizione nella galleria: il tutto simbolo della fine dell’arte attraverso la dipartita di chi la produce. 

   

Rocco Iaria nasconde all’interno di una naturale, arcaica cappella, iI busto sapiente, ora vivo perché integro, destinato alla consunzione e alla fine, perché di terra cruda…homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris. 

    

Non meno suggestiva è risultata la visita allo spazio espositivo, dove Igino Panzino celebra, con immenso dispiacere, testimoniato dalla presenza di due ceri votivi rossi,  annuncia la dipartita della sua arte. 

     Gian Carlo Catta racconta, con un segno graffiante ed essenziale, dentro un campo visivo dai colori opachi tendenti all’ingrigimento, che….l’amore mio non muore…, in un abbraccio mai rassegnato all’esistenza. 

     Mario Pischedda, con la sua installazione composta da uno spazio ligneo, su cui poggia la foto un essere disteso, si definisce perfettamente con una citazione che prendiamo a presto dalla auto presentazione dello stesso artista:… ogni momento è l’inizio della perenne contraddizione del vivere effimero di ognuno … 

Giovanni Sanna dentro la libertà di una narrazione di oggetti e cose, attraverso l’uso della pittura che gli è congeniale, racconta la percezione dello scorrere di un tempo infinito dove vivono forme, non necessariamente rivelatrici della loro natura.

 

La sapiente installazione di Simonetta Secci cristallizza la cruda e terrificante realtà della fine nonché la bestialità, unica, del genere umano. 

    

Jole Serreli, in uno spazio volutamente circoscritto e arredato da un cupo e bellissimo fondale scenografico composto dall’immagine di una foresta di alberi neri, inserisce un elemento tridimensionale, un residuo scarnificato di qualche resto animale, umano…non è dato saperlo. A significare ciò che rimane di una sicura fine, vicina o lontana.

  Perfettamente incastonata nell’ambiente, l’opera pregevole di Oscar Solinas, inquadra una tavola apparecchiata dove pizzi, bottiglie, bicchieri, piatti sono stati assorbiti ed integrati dalla vegetazione circostante popolata da ragnatele che tutto avvolgono, distorcono e ingrigiscono: la percezione della consunzione è palpabile. 

   

Tutto questo succede e lo si può osservare ai confini dell’impero.

Nessun Commento

Inserisci un commento