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I beni comuni, ovvero come uscire migliori dalla crisi post-pandemica

Settanta anni fa, i nostri genitori ricostruirono un paese distrutto da una guerra persa. Si puntò sullo sviluppo della produzione e consumo di beni privati. Il risultato furono il boom economico e la ricchezza, di cui tutti abbiamo goduto. Le conseguenze, prevedibili ma sottovalutate dell’aver puntato su beni privati, furono i danni al paesaggio, all’ambiente, agli spazi urbani, in una parola, i danni ai beni pubblici. Oggi, usando una metafora sbagliata, si è parlato della lotta al Covid come di una guerra. La pandemia non è un tempo di guerra ma è un tempo di cura. Comunque sia, le conseguenze saranno e già sono quelle di un dopoguerra. Ma da questo dopoguerra si potrà uscire puntando soprattutto sui beni comuni. Ma che cosa sono?

Quelli che in inglese sono i commons, e che nel nostro Medioevo agro-silvo-pastorale erano le comunanze res communis omnium, sono oggi l’insieme di quei beni materiali e immateriali che non possono essere ricompresi sotto le categorie giuridiche, culturali ed economiche tradizionali, del privato ma neanche del pubblico-demaniale. La salute, l’arte, il paesaggio, l’ambiente, ma anche la fiducia tra le persone e i popoli, così come anche internet, i software liberi, le reti comunicative, non sono semplici proprietà privata, frutto di quel processo di privatizzazione e commercializzazione globale iniziato con la rivoluzione industriale. Ma non rientrano neanche tra le prerogative del potere pubblico statale, tanto più oggi indebolito dalla globalizzazione neoliberista.

Anche l’inquinamento delle matrici ambientali (acqua, aria, suolo), così come il problema dell’immigrazione attengono ai beni comuni. Un’opera d’arte, un paesaggio, un habitat, una foresta, un bosco, di chi sono? Siamo proprio sicuri che la foresta amazzonica sia del Brasile? Che un van Gogh sia del proprietario? Che una collina sia del demanio? E l’aria, di chi è, di nessuno? Ma allora la posso inquinare come voglio, infischiandomene delle generazioni future? No, questi sono beni indispensabili per la riproduzione della vita, producono delle utilità generali e sono legati all’esercizio dei diritti fondamentali della persona. Per questo sono beni fuori mercato, che non hanno un prezzo. Il loro valore d’uso non può essere catturato e trasformato in valore di scambio privato. I beni comuni devono restare a disposizione di tutti e tutti dovremmo avere con loro un rapporto di cura e non di sfruttamento. Se una legge ne permette la mercificazione, il diritto e la giustizia li dovrebbero difendere anche contro decreti ingiusti. 

La “tragedia dei beni comuni” non è più risolvibile con i meccanismi del mercato e neanche con quelli del semplice stato. I beni comuni sono una nostra proprietà, ma nel senso che non ne siamo padroni, li usiamo ma non sono di nessuno perché se diventassero privati andrebbero distrutti.  In Italia spesso ciò che è di tutti è trattato invece come se non fosse di nessuno. È anche da qui, che è necessario ripartire per rispondere alla crisi post-Covid. Anche in questo caso si tratta di riscoprire un limite.

Il limite è quello posto alla logica economica che spinge alla totale privatizzazione della Terra e all’imperativo del profitto a tutti i costi.

Secondo alcuni, nel nostro paese, la riflessione e l’azione politica relativa ai beni comuni si è fatta evidente soprattutto con il referendum popolare del 2011, quello intitolato “Due sì per l’acqua bene comune”. Per altri, nel 2015, con la pubblicazione dell’Enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco, siamo entrati nell’era dei beni comuni planetari e dell’ecologia integrale. Se con la Terra e l’ambiente non impareremo ad usare i beni senza mangiarceli, noi distruggeremo tutto.

Non è questione di “benicomunismo” e neanche di ecologismo Nimby (Not in My back yard, non nel mio cortile). Di fronte all’ecocidio, protagonisti, complici, vittime e testimoni muti, tutti, tutti siamo ambientalisti e, se non lo siamo, dobbiamo diventarlo, perché tutti abbiamo un problema di impronta ecologica (vale a dire il consumo di risorse naturali rispetto alla capacità dei cicli vitali di rigenerarle). Le cose cambiano o, meglio, degenerano in fretta, e la crisi ecologica è tale che anche le categorie politiche devono essere ripensate. Per qualcuno “il Green New Deal è il socialismo del nostro secolo, completamente diverso da quello dei due secoli precedenti”, per altri si tratta di ripensare la democrazia rappresentativa, trovando un posto nella legislazione per questa nuova categoria giuridica. Per tutti si tratta di una conversione ecologica, si tratta diventare custodi della casa comune, custodi della sua bellezza e della sua bontà. Si tratta di beni attorno ai quali creare una comunità di cura collettiva, rafforzando il senso di cittadinanza attiva. Non si tratta di destra e di sinistra, che pure esistono e non sono quelle di ieri, non si tratta neanche di creare un nuovo partito o una nuova politica, di cui pure ci sarebbe assoluto bisogno, ma di dare vita ad un pensiero e ad un’azione, ad un movimento metapolitico, transculturale e interdisciplinare.    

Dalla crescita indiscriminata dei beni privati e dall’atteggiamento predatorio nei confronti delle risorse naturali e ambientali, alla sostenibilità dei beni comuni: questa è la transizione ecologica. Da qui dovrebbe ripartire una nuova, autentica politicizzazione dei cittadini, così come un’eco-alfabetizzazione popolare partecipata e condivisa. Perché dalla crisi non se ne uscirà da soli e, se non se ne uscirà migliori, non se ne uscirà affatto.   

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